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Ci vuole una vera riforma del sistema fiscale

“L’imposta patrimoniale è teoricamente giusta ma tecnicamente molto complessa”. Per il professor Alessandro Santoro, consigliere dell’ex ministro Franco per la lotta all’evasione e il fisco, servirebbe una riforma complessiva del sistema, sul modello Usa.

Il professor Alessandro Santoro insegna Scienza delle Finanze all’Università Bicocca di Milano. Autore di numerosi saggi sul sistema delle tasse in Italia e di ricerche sull’evasione fiscale, ha ricoperto incarichi di responsabilità istituzionale. Con il precedente governo è stato consigliere del ministro dell’Economia Daniele Franco e presidente della commissione sull’evasione. Gli abbiamo chiesto un suo commento sulle proposte di introdurre imposte fiscali sulle grandi ricchezze e i grandi patrimoni, a partire dalla questione centrale dell’aumento delle diseguaglianze economiche e della percezione di una ingiustizia complessiva nel sistema generale della tassazione. Questa intervista è stata realizzata prima della presentazione da parte del governo Meloni della delega fiscale. Anche se qui non si entra nel dettaglio delle singole norme, nel ragionamento del professor Santoro troviamo indicazioni utili per arrivare ad una vera riforma del sistema attualmente in vigore.

Professore, il fenomeno della diseguaglianza è in aumento ed è dimostrato da varie analisi e ricerche. Fonti istituzionali, come Banca d’Italia o Istat, confermano la crescita dei divari mentre a livello internazionale la globalizzazione pare aver favorito lo sviluppo di alcuni Paesi riducendo le distanze tradizionali (Usa-Cina per esempio). Quali sono le cause principali della diseguaglianza? Ci sono tratti comuni tra i Paesi od ogni realtà fa caso a sé?

Negli ultimi decenni si è ridotta la diseguaglianza tra i Paesi – grazie all’aumento del reddito medio di Paesi come Cina e India – ma è aumentata la diseguaglianza all’interno dei Paesi, innanzitutto quelli sviluppati. Ciò è dovuto ad un insieme di fattori, tra cui la diseguaglianza di opportunità, la precarietà del mercato del lavoro e la ridotta capacità degli Stati di correggere a valle, tramite il welfare, queste diseguaglianze che si originano a monte del processo di creazione e distribuzione del valore aggiunto

Quali sono le conseguenze sociali e politiche della diseguaglianza?

La diseguaglianza mina l’idea stessa di società democratica nel senso più profondo del termine, genera l’esclusione di quote crescenti della società non solo dalla partecipazione ai processi di produzione e distribuzione della ricchezza, ma anche dal coinvolgimento nei processi di partecipazione alla vita democratica

Le politiche fiscali possono essere inserite tra le cause della diseguaglianza? E quali politiche alternative si potrebbero mettere in atto per ridurre i divari? Una tassazione delle grandi ricchezze e dei grandi patrimoni può favorire la giustizia sociale? 

Si, anche se probabilmente con un ruolo mediamente inferiore rispetto alle diseguaglianze che si generano nel mercato del lavoro. La tassazione patrimoniale può avere un ruolo, ma non è la panacea. A mio avviso è molto più importante allargare la base imponibile, riassorbendo e riconducendo ad un trattamento omogeneo e razionale la miriade di regimi agevolativi che sono stati introdotti in questi anni, e intensificando la riduzione dell’evasione -che si è già registrata negli anni recenti- attraverso un uso più intensivo dell’enorme quantità di dati a disposizione dell’amministrazione finanziaria. Questo allargamento della base imponibile può consentire la riduzione delle aliquote effettive a livelli bassi di reddito e, per questa via, incentivare la partecipazione al mercato del lavoro legale e la riduzione della diseguaglianza.

Quali sono le principali obiezioni ad una applicazione concreta di una tassa sulle grandi ricchezze? Quali sono le possibili scappatoie e le “fughe” dei ricchi, pensando anche all’esperienza statunitense con il presidente Biden? 

Gli esempi precedenti non sono casi di successo. Negli anni Novanta dodici Paesi europei utilizzavano imposte sulla ricchezza (wealth taxes) e oggi ce ne sono solo 3. I problemi principali riguardano la definizione della base imponibile -che è semplice per alcuni tipi di ricchezze per cui sono disponibili valori di mercato e molto meno per altre, come le quote di patrimonio investite in imprese o attività economiche non quotate– e, conseguentemente, l’elevata possibilità di “travestire” i patrimoni in forme che non siano tassate. Per questa ragione avrebbe senso provare a disegnare una patrimoniale ad ampia base imponibile e calcolarla anticipatamente utilizzando le banche dati, in particolare l’anagrafe dei conti correnti e le informazioni sui patrimoni posseduti all’estero, non lasciando integralmente la determinazione dell’imposta all’autodichiarazione del contribuente. Infine l’imposta dovrebbe avere delle soglie molto alte per evitare problemi di liquidità e anche perché, altrimenti, dovrebbero essere eliminate tutte le forme di doppia tassazione che si introdurrebbero. L’introduzione di una soglia, tuttavia, richiede attenzioni ancora maggiori dal punto di vista dell’applicazione, perché determina altri noti fenomeni elusivi (ad esempio: lo spezzettamento dei patrimoni in modo che stiano tutti al di sotto della soglia o l’intestazione fittizia di componenti di patrimonio). L’imposta patrimoniale, in sintesi, è teoricamente giusta ma tecnicamente molto complessa.

Ci sono studiosi che criticano la proposta di introdurre tasse per i super ricchi perché pensano sia necessario intervenire “a monte”, laddove le diseguaglianze e le sperequazioni si generano. Ha un senso questa obiezione? 

Si. È indubbiamente vero che troppo spesso si chiede al fisco di rimediare alle diseguaglianze a monte, dimenticando che queste sono il frutto del conflitto tra capitale e lavoro e che le forze che determinano gli esiti di questo conflitto sono le stesse che determinano gli esiti del confronto politico e quindi, in ultima analisi, anche il disegno delle politiche fiscali.

Quanto pesa sulle entrate fiscali nazionali il fenomeno dell’evasione e dell’elusione fiscale? Se lei dovesse impostare tu una campagna di sensibilizzazione su quali valori si dovrebbe puntare? Ci vorrebbe anche una rivoluzione culturale per costruire un sistema fiscale più equo?

Secondo i dati della Relazione sull’evasione fiscale, redatta dalla Commissione che io presiedo, l’evasione fiscale ammonta a una cifra di poco inferiore a 100 miliardi di euro annui, di cui più del 60% viene dall’Iva e dall’Irpef dei lavoratori autonomi e degli imprenditori. La letteratura internazionale indica la tax morale o moralità fiscale come uno degli elementi che determinano l’evasione ma, da questo punto di vista, il caso italiano è un po’ anomalo perché il nostro Paese non risulta avere una bassa moralità fiscale ma ha, invece, un’alta evasione. Ciò accade perché nel nostro Paese l’evasione è dovuta molto più alla struttura produttiva polverizzata che non alla bassa moralità fiscale. Per le attività economica non organizzate o organizzate su base familiare l’evasione ha un costo molto basso. Diversamente, per le imprese organizzate e per le multinazionali risulta più attraente l’elusione fiscale, sulla quale le stime che abbiamo sono molto più incerte, ma comunque nettamente più basse rispetto a quelle relative all’evasione di massa, come documentato anche nel progetto Missing profits.

Le tecnologie di cui disponiamo ci permetterebbero di tracciare le vie dell’evasione fiscale e disegnare le mappe precise dei paradisi fiscali. Perché questo non succede?

Non è vero che non succede. Esistono numerosi ed esaustivi elenchi di Paesi con regimi fiscali privilegiati. Il problema è che, in un contesto in cui i movimenti di capitale sono liberalizzati, l’utilizzo di questi regimi può essere considerato elusivo solo in determinate circostanze che sono difficili da provare. La soluzione è ovviamente multilaterale e sicuramente la proposta Ocse sui due pilastri di tassazione internazionale è un passo avanti. In particolare, dal 2023 l’Unione europea ha deciso di adottare il secondo pilastro, e quindi l’aliquota minima del 15% sulle multinazionali. È un inizio.

Negli Stati Uniti il dibattito sulla tassazione delle grandi ricchezze e delle Big companies è carsico. Ora pare sia tornato di attualità dopo il discorso sullo stato dell’Unione del presidente Biden. Che ne pensa? Ci sono le condizioni per tradurre in leggi la proposta politica?

Mi è difficile valutare a distanza le proposte. Sicuramente la discussione negli Usa è stata molto vivace per merito delle proposte elaborate da Emmanuel Saez e da altri economisti e poi portate avanti da Elizabeth Warren e da altri esponenti della sinistra del Partito Democratico. Hanno contribuito a rilanciare il dibattito anche le posizioni di alcuni magnati statunitensi che hanno esplicitamente chiesto di essere tassati maggiormente. Si è comunque aperta una breccia nell’opinione pubblica. Dopodiché la fattibilità di proposte del genere dipende sempre da tanti elementi che, appunto, da qui è difficile valutare. 

Per quanto riguarda l’Italia e l’Europa – se lei dovesse suggerire un programma di governo – quali sono le politiche fiscali più adatte a ridurre le diseguaglianze e come potrebbe essere qui da noi una tassazione che incida in senso progressivo sulle grandi ricchezze e i grandi patrimoni?

Ribadisco quello che ho già accennato in una risposta precedente. Io credo che nell’ambito di una revisione complessiva del sistema fiscale italiano possa avere un ruolo un’imposta patrimoniale complementare all’imposta sui redditi. Questa dovrebbe essere applicata solo su una parte della popolazione che abbia effettivamente una disponibilità di patrimoni elevati e quindi la possibilità di pagare l’imposta senza incorrere in problema di liquidità. Tuttavia sottolineo che una imposta del genere avrebbe un senso più che altro simbolico, ovvero potrebbe contribuire ad aumentare più la sensazione, la percezione di equità del sistema fiscale che non ad aumentare grandemente il gettito. E questo per una serie di ragioni. In primo luogo perché buona parte del patrimonio delle famiglie italiane è un patrimonio immobiliare e per sua natura il patrimonio immobiliare si presta meno ad essere tassato rispetto al patrimonio finanziario. Secondo, perché di questi patrimoni, pur essendo più concentrati dei redditi, comunque – ipotizzando una franchigia sufficientemente alta – ne verrebbe esentata una parte rilevante. Terzo, perché comunque i fenomeni di elusione della tassazione si produrrebbero così come si sono prodotti in tutti i Paesi dove sono state introdotte questo tipo di imposte. Tuttavia, lo ripeto, nell’ambito di una revisione complessiva dell’imposizione fiscale sulle persone fisiche potrebbe avere un ruolo anche l’imposta sui patrimoni. Sarebbe però sbagliato pensare che l’introduzione di questo tipo di imposta possa avere effetti rilevanti.