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Per pace e clima ripartire dalla proposta dei premi Nobel

Spese militari in forte aumento, nuovi sistemi d’arma basati sull’Intelligenza artificiale, crescenti tensioni, caratterizzano questa seconda guerra fredda. La società civile non è insensibile a fermare la geopolitica del caos, lo dimostra la proposta dei premi Nobel. Ma deve fare più pressione sulla politica, anche in Italia.

Un appello per la riduzione del 2% della spesa militare mondiale è stato lanciato da oltre cinquanta premi Nobel e presidenti di accademie scientifiche. Personalità scientifiche di altissimo valore hanno pubblicamente rilevato la pericolosità di una crescente spesa militare che si avvicina ai 2.000 miliardi con una crescita ininterrotta da diversi anni, in parallelo a tensioni in aumento nell’area del Pacifico asiatico.

La proposta dei Nobel consiste nella richiesta indirizzata ai governi di tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite affinché negozino una riduzione annuale congiunta delle loro spese militari del 2% per cinque anni consecutivi. In questo modo si avrebbe un tesoretto miliardario che potrebbe essere utilizzato al 50% in un fondo globale, sotto la supervisione delle Nazioni Unite, con lo scopo di affrontare le gravi sfide comuni dell’umanità come le pandemie, i cambiamenti climatici e la povertà estrema. L’altra metà potrebbe rimanere a disposizione dei singoli governi, per usarli, ad esempio, per la riconversione industriale delle aziende belliche verso una produzione civile. La cifra complessiva stimata si aggirerebbe intorno ai 1.000 miliardi di dollari entro il 2030. Non poca cosa, insomma.

I premi Nobel inoltre mettono in evidenza che una decisione di tal genere rappresenterebbe un segnale di fiducia, distensivo che aumenterebbe la sicurezza, pur mantenendo la deterrenza e l’equilibrio, riducendo comunque le tensioni e il relativo rischio di guerra.

Nel passato accordi di disarmo in campo nucleare (come gli accordi SALT e START tra USA e URSS) hanno portato non solo ad una riduzione numerica degli armamenti, ma anche ad una clima più disteso tra le due superpotenze. La scelta di diversi Stati di dismettere arsenali nucleari o non dotarsene ha comunque ridotto i rischi della proliferazione. Oggi la minaccia nucleare, ancora presente, purtroppo, si limita a “sole” 13.000 testate a fronte delle 70.000 della prima guerra fredda: si può comunque distruggere il mondo intero, anche se meno volte rispetto al passato!

Esiste anche un’altra campagna internazionale per la riduzione delle spese militari, la Global Campaign on Military Spending (più di 100 organizzazioni di 35 paesi diversi), a cui aderisce in Italia la Rete Italiana Pace e Disarmo, che chiede una riduzione ancora maggiore, del 10% e sin dal 2014.

I governi vorranno e sapranno rispondere a questi appelli? I dati sulla spesa militare mondiale non ci inducono ad essere ottimisti, dato che  si è passati dai 1.754 del 2009 ai 1.960 nel 2020, che – non va dimenticato – è stato l’anno della pandemia da Covid-19 e della conseguente crisi economica mondiale. 

A spendere di più sono soprattutto gli Stati Uniti seguiti dalla Cina: i primi con 778 miliardi di dollari nel 2020, la seconda con 252 miliardi di dollari. Poi vengono l’India (72,9 miliardi di dollari), la Russia (61,7 miliardi di dollari) e la Gran Bretagna (58,4 miliardi di dollari).

Questa enorme mole di denaro a disposizione per le spese militari contribuisce non solo ad aumentare la produzione e il commercio mondiale di armamenti, ma anche spinge la R&S verso nuove frontiere. 

Un recente rapporto del SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute, l’istituto indipendente che studia la proliferazione bellica) sulle prime 100 aziende del settore bellico evidenzia un dato significativo: hanno fatturato ben 531 miliardi di dollari nel 2020, con un aumento dell’1,3% in termini reali rispetto all’anno precedente. Di queste ben 41 sono statunitensi, con un fatturato di 285 miliardi di dollari. Seguono aziende cinesi, russe, britanniche, francesi, tedesche, ecc.

Molta ricerca e sviluppo (R&S), come detto, si sta spingendo verso nuove frontiere: dai missili ipersonici alle armi autonome, mentre i droni sono entrati negli arsenali di moltissimi paesi. I mass media tendono a presentarci come particolarmente minacciosi questi nuovi sistemi d’arma in quanto sperimentati da paesi come Russia o Cina, dimenticando “casualmente” che anche paesi occidentali come gli USA (ma anche Francia, Gran Bretagna ed altri) ci stanno alacremente lavorando, tutti nella speranza di avere in mano – prima degli altri – una super-arma in grado di garantire la supremazia militare. Si dimentica la storia recente delle armi nucleari statunitensi, gelosamente tenute segrete nel secondo dopoguerra anche nei confronti degli alleati, ma che in breve sono diventate patrimonio diffuso al punto da far coniare il termine “club nucleare”. Quando viene realizzata una nuova arma, è solo questione di tempo: anche gli altri paesi se ne doteranno.

I missili ipersonici, in grado di volare velocissimi a quote molto basse e minori rispetto a quelli balistici tradizionali, e quindi con ridotti tempi di allerta da parte del destinatario, possono raggiungere l’obiettivo stabilito con testate convenzionali o nucleari, aumentando l’insicurezza, data l’incertezza dell’obiettivo e la tipologia della testata veicolata.

Per questo si sta provvedendo già alle contromisure: le due ditte statunitensi Northrop Grumman e L3Harris Technologies sono state incaricate dalla Missile Defense Agency di realizzare i prototipi dei sensori basati nello spazio che andranno a formare il nuovo sistema di monitoraggio e hanno iniziato a produrre gli HBTSS (Hypersonic and Ballistic Tracking Space Sensor) per ora a scopo dimostrativo, cioè il nuovo sistema di rilevamento e tracciamento dei missili balistici e ipersonici, e opereranno nell’orbita terrestre bassa. Peraltro questi sistemi funzioneranno solo se diffusi in quantità sufficiente e se saranno in grado di monitorare l’intero spazio terrestre: l’oscuramento di una parte di questa rete sarebbe un segnale d’allarme di un imminente attacco invisibile. La nuova frontiera delle guerre stellari. 

Dati i tempi sempre più ristretti, connessi a questi sistemi d’arma innovativi e agli altri che verranno, aumenta la pressione per dotare d’Intelligenza Artificiale (IA) le contromisure, visto che i tempi delle reazioni umane sono più lenti. L’Intelligenza Artificiale sta diventando un elemento importante di numerosi sistemi d’arma e sarà essa a decidere della vita o della morte di un presunto avversario. Sistemi antimissile, anti aereo e anti nave affidati all’IA stanno venendo sviluppati e prodotti, mentre da otto anni in seno alla Convenzione delle Nazioni Unite sulle armi convenzionali (CCW) si sta discutendo per regolamentarne l’uso, senza però venirne a capo.

L’opposizione costante di pochi paesi, in primis Stati Uniti e Russia, utilizzando la regola del consenso per bloccare ogni decisione, ha reso il confronto senza esito, nonostante la pressione di migliaia di esperti e scienziati di tecnologia e d’Intelligenza Artificiale. La Campagna Stop Killer Robots (di cui fa parte anche Rete Italiana Pace e Disarmo), il Comitato Internazionale della Croce Rossa e Mezzaluna Rossa, 26 premi Nobel, che hanno messo in rilievo la pericolosità di tali strumenti, dovuta al concreto rischio di errori degli algoritmi e dei sistemi connessi, come è stato messo in rilievo anche da una apposita ricerca prodotta nel 2020 dall’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo. Di fronte alle resistenze succitate si sta facendo strada l’ipotesi di un accordo extra CCW, analogamente a quanto è stato fatto con trattati e convenzioni per vietare le mine antiuomo (nel 1997), le cluster bombs (nel 2008) e le armi nucleari con il TPNW (nel 2017).

Spese militari in aumento, nuovi sistemi d’arma, incremento dei commerci di armi e multipolarismo stanno a caratterizzare questa seconda guerra fredda che vede in atto forti tensioni non solo con la Russia, soprattutto per la vicenda ucraina, ma anche con la Cina nello spazio del Mar Cinese Meridionale (per le isole contese tra i vari paesi dell’area), per l’indipendenza di Taiwan e per la repressione in atto ad Hong Kong. A far da corollario a tutto questo permangono l’instabilità diffusa nel Medio Oriente (Iraq, Siria, Yemen, Israele/Palestina) e nel Nord Africa (Libia e Egitto innanzitutto), gli squilibri economici e il fenomeno migratorio, le “guerre dimenticate” del continente africano, e sullo sfondo la questione energetica con il passaggio a medio o lungo termine dalle fonti non rinnovabili ad altre nuove, questione che stravolgerà equilibri ed interessi consolidati per più di un secolo. Se poi mettiamo nel calderone le conseguenze dei cambiamenti climatici in atto, il mix appare decisamente preoccupante e l’espressione “geopolitica del caos”, coniata oltre venti anni fa da Ignacio Ramonet, sembra essere particolarmente pertinente. 

I toni usati dai leader delle varie potenze appaiono minacciosi. Putin avverte che l’eventuale passaggio dell’Ucraina nella NATO, che si posizionerebbe così direttamente ai confini della Russia, è una linea rossa invalicabile, mentre Biden annuncia la disponibilità ad intervenire direttamente con la forza militare in difesa di Kiev in caso d’invasione da parte delle forze di Mosca. Xi Jinping, che sta portando la Cina ad essere un protagonista mondiale anche della corsa agli armamenti, usa toni altrettanto duri riguardo le questioni già accennate e Washington risponde con la creazione di un nuovo patto, l’AUKUS, tra Australia, Gran Bretagna e gli Stati Uniti, finalizzato a fronteggiare la crescita del Dragone sulla scena mondiale. Primo atto di questa alleanza è rappresentato dalla lucrosa vendita di sottomarini nucleari statunitensi a Canberra, che ha annullato il contratto precedentemente firmato con la Francia per un valore di 56 miliardi di euro, suscitando di conseguenza le ire di Parigi.

Alla sconfitta cocente dell’Afghanistan, nell’Unione Europea si risponde con dichiarazioni tese a costituire una forza armata europea, come quella ipotizzata nel settembre scorso dalla presidente della Commissione, Ursula von Der Leyen, circa la formazione di un esercito di 5.000/6.000 uomini. A parte l’esiguità numerica della brigata, l’assenza di un vero governo europeo e di una vera politica estera e di sicurezza, condivisa tra i vari partner europei (tra cui quelli sovranisti), rimane il vero ostacolo ad ogni passo in tal senso. Non è casuale che, negli anni, si è riusciti a concretizzare solo una serie di finanziamenti alle industrie del settore. Infatti si sono stanziati ben 13 miliardi di euro per il 2021-27 attraverso il Fondo europeo per la difesa, con lo scopo di agevolare la coproduzione europea nel settore della produzione degli armamenti e un loro utilizzo condiviso nelle varie forze armate nazionali. Il dibattito di lunga data sulla difesa europea e il rapporto con la NATO – di complementarietà o di autonomia – è esemplare dell’impasse dell’Unione europea, mentre le Nazioni Unite sono messe da tempo in un angolo e il Consiglio di Sicurezza, dominato dal potere di veto dei cinque “grandi”, di fatto non svolge nessun ruolo pacificatore super partes.

In questo quadro frammentato l’UE, gigante economico ma nano politico, non riesce a svolgere nessun ruolo di rilievo sulla scena internazionale e si ritrova a muoversi spesso e volentieri in posizione ancillare rispetto alla potenza leader degli Stati Uniti, come ha dimostrato – anche tragicamente – la vicenda afghana. 

Occorre un salto di qualità delle forze politiche e dei governi nell’azione dei prossimi anni per superare i vecchi schemi nazionalistici, basati su immediati interessi nazionali che non hanno più spazio in un mondo globalizzato. L’uso della forza nei rapporti internazionali, spacciato come fattore risolutore delle crisi, ha dimostrato storicamente di non essere tale e solo precorritore di altre successive crisi e nuovi conflitti. 

In tal senso l’appello dei premi Nobel è importante perché dimostra che la società civile è sensibile e in grado di muoversi in modo indipendente. Lo stesso è avvenuto quando, a seguito di una campagna internazionale, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari (TPNW), entrato in vigore nel 2021, nonostante l’opposizione del club nucleare e dei suoi alleati, Italia compresa. La Germania sembra intenzionata ora a partecipare come osservatore alla prima riunione degli Stati che fanno parte del TPNW, riunione che si terrà nel marzo 2022. In Italia, la campagna “Italia ripensaci” sta facendo pressione  affinché il nostro paese assuma posizioni più coraggiose, anche solo partecipando, analogamente alla Germania, ai lavori del marzo 2022. La società civile può creare le premesse per il salto di qualità suddetto: we can.