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Una rilettura dei Pandora Papers 

Il nuovo scandalo dei paradisi fiscali per i Paperoni del mondo non ha provocato una grande ondata di indignazione su un sistema di tassazione generalmente regressivo, diseguale e ingiusto. Analisti e media si interrogano sulle cause.

Può essere utile ritornare con maggiore attenzione sui Pandora Papers dopo i primi commenti forse troppo frettolosi. Partendo da alcune valutazioni apparse sulla stampa internazionale nei giorni successivi alla notizia si possono mettere meglio a fuoco alcune questioni importanti e all’inizio trascurate.

La regolamentazione della fiscalità internazionale avviata in qualche modo nel 2008 e passata attraverso le tempeste di Luxleaks del 2014, dei Panama Papers del 2016 e dei Paradise Papers del 2017, ha certo portato, con molto ritardo, qualche limitato frutto, come testimonia ora l’accordo sulla tassa minima sulle multinazionali; ma anche questo provvedimento, come quelli precedenti, appare piuttosto debole ed è poi soggetto ad una incerta approvazione da parte dei parlamentari Usa. 

Thomas Piketty, su Le Monde dell’11 ottobre, sottolinea come il sistema fiscale resti alla fine ancora violentemente regressivo, profondamente ingiusto e diseguale. Come al solito, “molto a pochi”. Come commenta Brooke Harrington, sul New York Times dell’11 ottobre, ogni successiva rivelazione sul tema della fiscalità porta a casa lo stesso messaggio: abbandonate ogni speranza che i governi servano il popolo o che la legge sarà applicata in maniera eguale a tutti. Tra l’altro la giornalista sottolinea come nel lasso di tempo intercorso tra i Panama Papers e i Pandora Papers ci siano state in tutto meno di dieci condanne derivanti dalle rivelazioni e come soltanto una toccava un politico. 

Per quanto riguarda i frutti cui si faceva cenno più sopra, si tratta in ogni caso di frutti perversi. I Pandora Papers mostrano chiaramente che, mentre sembrano regredire le frodi più grossolane, praticate con la complicità di Stati deboli, la finanza si è nel frattempo adattata e ha rivolto la sua domanda di protezione ai paesi più forti, a cominciare dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna. 

Un editoriale della Direzione e un articolo a firma Isabelle Mandraud su Le Monde del 7 ottobre sottolineano il doppio ruolo giocato dagli Stati Uniti sulla questione. 

Il commento del portavoce della Casa Bianca alle rivelazioni dei giorni scorsi è stato certamente quello di riaffermare l’impegno di Joe Biden in favore di un sistema fiscale più trasparente e più giusto a livello nazionale e mondiale. Ma pur spingendo per una regolazione più forte quando questo è nell’interesse del paese, afferma il quotidiano, d’altro canto esso ospita in tutta impunità dei paradisi fiscali. Biden è stato per 36 anni rappresentante al Senato dello Stato del Delaware, ma le pratiche molto opache di tale Stato,  ben note da tempo, come di quelli del Nevada, dell’Alaska, del New Hampshire e soprattutto del Dakota del Sud (che copriva con il segreto nel 2020 367 miliardi di dollari), appaiono evidenti dal rapporto. In qualche modo siamo così per Biden a l’arroseur arrosé dei fratelli Lumière.

Per altro verso, Katrina Vandel Heuvel, su The Nation del 13 ottobre, sottolinea come gli Stati Uniti rivaleggino ormai con le isole Cayman e i protettorati europei come paradiso fiscale.   

Per la Gran Bretagna, su Il Fatto Quotidiano del 6 ottobre è apparsa un’intervista a Susan Hawley, che guida Spotlight on Corruption, un organismo che si batte per una maggiore trasparenza del sistema locale. Intanto Londra ha da tempo stabilito centri finanziari off-shore quali quelli delle Isole Vergini e delle Cayman. Nell’intervista, la Hawley sottolinea come Londra sia virtuosa solo sulla carta, mentre è in realtà un epicentro di corruzione globale. Emerge dalle carte la rilevante influenza di giganteschi flussi di denaro di proprietà di corrotti, criminali e mafiosi sulla politica britannica, in particolare sui Tories. L’attivista ricorda inoltre come dopo i Panama Papers il governo avesse costituito una grande task force per analizzare il fenomeno, iniziativa finita però nel nulla.

Un ruolo molto importante risulta anche in questo caso, come molte volte in passato, giocato dalla Svizzera, come ci riferisce un articolo di Angelo Mincuzzi sul Il Sole 24 Ore del 14 ottobre. Ma questa volta protagoniste non sono le banche locali, come in altri tempi, ma un certo numero di società di consulenza, di fiduciari, commercialisti e avvocati d’affari svizzeri che hanno svolto un ruolo di introducer, collegando i clienti ai fornitori di servizi off-shore. Così la Svizzera emerge come un centro fondamentale dell’ingegneria nei paradisi fiscali.

Per l’UE il problema appare quello del ridicolo. Come ci informa Jennifer Rankin in un articolo del 5 ottobre sul Guardian, la UE ha collocato a suo tempo sulla lista nera dei rifugi fiscali solo nove piccoli paesi, ma il 27 settembre ne ha perfino rimossi tre; alla luce delle informazioni trapelate dai Pandora Papers, alcuni critici che siedono nel Parlamento Europeo hanno descritto tale decisione come sbagliata e grottesca. Mentre nel continente i super ricchi continuano ad usare i rifugi fiscali per evitare di pagare le tasse, la gente comune sarà obbligata a coprire il conto del Recovery Fund.  

Dobbiamo ricorrere ad un giornale russo, Sputnik International del 7 ottobre, per scoprire con qualche dettaglio una altro tema di molto rilievo e sul quale altri quotidiani hanno sorvolato. 

Il giornale sottolinea come nei Pandora Papers non appaiano né uomini d’affari né politici Usa. Il commento del quotidiano è che per quanto riguarda i ricchi le aliquote fiscali sono così basse che non conviene certo ricorrere a vie traverse per non pagare le tasse. Mentre quella reale sui redditi di Warren Buffett è pari allo 0,10%, quella di Jeff Bezos si colloca allo 0,98% e quella di Elon Musk, il più tartassato dei tre, al 3,27%; un grave affronto a quest’ultimo.

Per quanto riguarda i politici appare bizzarro, afferma l’articolo, che i circa 600 giornalisti che hanno lavorato all’indagine abbiano trovato la corruzione soprattutto nei paesi emergenti e in parte in Europa, ma niente negli Usa. Quale coincidenza e quale sorpresa! 

Il giornalista racconta a questo proposito che alcune delle persone che hanno partecipato all’inchiesta sui Pandora Papers hanno lavorato in passato con le agenzie di spionaggio statunitensi, mentre la società che la ha portato avanti è finanziata da importanti attori dell’establishment del paese. L’attendibilità delle rivelazioni ne esce alla fine almeno parzialmente menomata.

In ogni caso, alla fine, come ci ricorda ancora Piketty, sarebbe certamente tempo di passare all’azione; o dobbiamo aspettare ancora le prossime rivelazioni, magari fra qualche anno? Forse quest’ultimo è lo scenario più probabile.