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Dal carbone alle rinnovabili: il caso di Civitavecchia

Una larga e variegata mobilitazione di forze sociali per la riconversione della centrale Enel di Torrevaldaliga, sostituendo carbone e metano fossili con fonti rinnovabili. Gli interessi che si contrappongono al progetto. La storia, i protagonisti, la posta in gioco di un conflitto che si preannuncia lungo.

Per le prospettive di politica industriale nazionale, la fase attuale assomiglia a quella sprecata nel settore della mobilità nei primi anni 2000. Allora la crisi Alfa Romeo aveva fatto terra bruciata intorno ad un sindacato che unitariamente chiedeva la riconversione radicale verso motori non più a combustibile fossile, ma alimentati a idrogeno e orientati ad un “Piano di Mobilità Sostenibile” per la Lombardia. La Fiat non era certo all’altezza di una sfida di tale portata, così impegnata al gruzzolo di famiglia più che a una riconversione ecologica e foriera di buona occupazione, Tutto allora si consumò in un patto tra governi regionali, nazionali e interessi immobiliari. L’intero settore in transizione scomparve per sempre dalla manifattura lombarda, lasciando sul campo solo un manipolo di indotto per l’industria tedesca.

Oggi, per certi versi, l’occasione si ripete con qualche elemento di consapevolezza e di responsabilità in più. Parliamo dell’occasione di aprire frontiere prima inimmaginabili alla sostituzione del carbone e del metano fossili con fonti rinnovabili che, oltre all’emergenza climatica, diano risposte alle questioni occupazionali e al “senso” del lavoro, armonizzandone l’eccesso di capacità trasformativa con i limiti e i guasti arrecati alla natura. Il caso di Civitavecchia – su cui si sta esprimendo un’ampia mobilitazione – è paradigmatico di un problema nazionale riguardo al quale non possono prevalere gli interessi puramente aziendali di corporation a compartecipazione pubblica, né equilibri di governo che trasmutano in green washing orizzonti di ecologia integrale.

I ritardi e le motivazioni con cui non si vuole aprire nel paese un dibattito sulla sostituzione della potenza fossile con quella rinnovabile – sempre più conveniente, rafforzata da stoccaggi chimici o idrici, corredata da fornitura di vettori flessibili come l’idrogeno verde e protesa ad una più efficiente elettrificazione di un sistema energetico decentrato – lascia presumere che o non ci sarà phase-out dal carbone o che l’alimentazione delle caldaie e delle turbine restaurate avverrà, anziché coi nastri trasportatori dal deposito carbonifero, col prolungamento di un metanodotto che arrivi al mare, magari per poi inabissarsi e sbucare su un’altra riva.

Il gas è tutt’ora in cima ai piani strategici di Eni, la maggiore multinazionale italiana, ma trova la complicità di Enel Italia – si noti che Enel Group all’estero investe solo in rinnovabili! – perché il rischio di investimento in un nuovo grande impianto a metano qui da noi è coperto da sussidi pubblici e dagli oneri aggiuntivi che si scaricano nelle bollette dei consumatori, garantiti dal capacity market. E come se ciò non bastasse, le aziende fossili premono per ottenere interessi privilegiati dalla BEI anche per i nuovi impianti fossili e veder garantita dalla Commissione UE una tassazione delle emissioni di CO2 al camino che non metta fuori mercato il Kwh da metano rispetto al Kwh trasformato da impianti eolici e fotovoltaici puliti. Altro che concorrenza, visto che tempi di ammortamento e valorizzazione di impianti di questo genere superano i 30 anni di funzionamento mantenendo il mix di combustibili impiegato fuori gioco rispetto agli obiettivi di zero emissioni previsto per la UE al 2050.

Appare quindi evidente come l’impianto Enel di Civitavecchia Torrevaldaliga – oggetto di una lunga battaglia locale tutt’ora in crescita – vada chiuso e riconvertito, senza ingannare gli abitanti laziali sulla frottola che il passaggio al metano rappresenterebbe lo slancio dovuto verso l’obiettivo di azzeramento delle emissioni di CO2 entro il 2050. Il “trucco” poi, per cui Eni, fornitore abituale di gas, punterebbe a limitare le sue quantità di emissioni rispetto a quelle indicate dalla UE moltiplicando gli impianti di sequestro della CO2 nel sottosuolo (CCS) non è suffragato né sul piano industriale e nemmeno su quello sperimentale. Pertanto, il piano strategico dell’Ente è in contrasto con le indicazioni UE, dato che prevede una progressiva riduzione dell’estrazione di petrolio, ma un aumento della prospezione e dello sfruttamento del gas metano nel mix energetico complessivo.

Un gruppo di ricercatori e tecnici che da tempo sostiene la riduzione di gas climalteranti e la tutela della salute nell’area di Civitavecchia ha messo a punto un progetto di massima che prevede la produzione di elettricità esclusivamente da fonti rinnovabili, stabilizzate nella loro intermittenza da stoccaggi e conversione in idrogeno verde, disponibile a sua volta come vettore energetico per varie destinazioni territoriali: nello specifico, la potenza proverrebbe sia da fotovoltaico su ampie aree dell’impianto da dismettere (in particolare i depositi di carbone) sia, soprattutto, da eolico off-shore. Un parco eolico di pale galleggianti collocato a 20-30 chilometri dalla costa (quindi senza impatto visivo diretto), collegate a riva con cavi sottomarini e integrata da idrolizzatori per conservare in idrogeno e rendere successivamente disponibile l’eccesso di corrente elettrica prodotta. L’Italia possiede basi tecnologiche al riguardo e lo stesso PNRR favorisce anche sotto il profilo finanziario un simile approccio.

Si troverebbe così risposta alla sufficienza e alla sicurezza della rete elettrica non solo locale, rendendo energeticamente autonoma la città di Civitavecchia e il suo hinterland e disponendo di fonti locali diffuse e interconnesse, grazie anche a una stazione di storage che compensi l’intrinseca discontinuità di sole e vento (che nel caso di Civitavecchia forniscono un bilancio tra i più favorevoli in Europa).

Intorno ad esso si è sviluppata una discussione che ha interessato sia la maggior parte delle associazioni e delle organizzazioni locali, sia il sindacato, sia diversi consiglieri e parlamentari, oltre alle principali associazioni ambientaliste, e alla CNA. È sorprendente e lungimirante l’entrata in campo da parte dei lavoratori, a partire dalla Camera del Lavoro territoriale, di altri sindacati di categoria e della Uil confederale, che non solo interpretano la necessità della svolta ecologica, ma valorizzano anche in termini quantitativi e qualitativi il diritto alla salute e alla buona occupazione. La Fiom locale e i sindacati presenti in centrale hanno già scioperato a più riprese su tutti i turni e hanno impressionato una città spesso pigra rispetto al suo destino e passiva nei confronti di una natura depredata in modo non dissimile dal lavoro.

Sta qui succedendo l’opposto di quanto avviene a Ravenna, dove il progetto Eni di un impianto CCS di sequestro di anidride carbonica non sta incontrando parimenti consapevoli opposizioni, nemmeno nel sindacato. Nella città tirrenica, oltre ai sindacati, quasi tutte le associazioni ambientaliste e civiche, gli studenti, il sindaco (eletto con una lista civica orientata a destra) e persino la diocesi – citando la Laudato Sì – hanno manifestato un forte interesse per il progetto e sono in programma diversi incontri (per lo più online) per farlo conoscere e per approfondirne gli aspetti tecnici, economici e occupazionali.

Che cosa possiamo ricavare da questa esperienza sommariamente riassunta?

  1. Che è la prima volta che in modo così esplicito un settore consistente e significativo della classe operaia si mobilita a favore di un progetto di transizione energetica, invece di arroccarsi nella difesa delle soluzioni di mera conservazione, sostanzialmente incompatibili con una vera svolta ecologica. Questo sembra dimostrare che, di fronte a un progetto credibile, i lavoratori possono assumere un ruolo protagonista, scuotendo sia gli interessi corporativi del management delle imprese che alcune delle pigrizie ancora presenti in zone sindacali più imprevidenti.
  2. Che la prospettiva aperta da questo progetto si fonda sia sull’urgenza della crisi climatica, sia sulla sua credibilità tecnica e occupazionale (il volano di attività che il progetto comporta fornirebbe un moltiplicatore di occupazione qualificata; ad ora anche il calcolo economico sembrerebbe favorevole grazie ai fondi di Next Generation UE e alle occasioni di reindustrializzazione ad alta specializzazione che vengono incentivate in loco), sia, soprattutto, su una mobilitazione di forze sociali cittadine, a cui il progetto sta dando continuità e che porta a riflettere sulle potenzialità di un progetto prospettato nella forma di una “coalizione sociale”.
  3. Che questa versione di rappresentanza anche diretta adeguatamente sostenuta, rinvigorita da una diffusione ampia di formazione e conoscenza, può innescare il processo di una sua replicazione a livello nazionale e, perché no?, internazionale, quando il problema della riconversione produttiva si pone con assoluta urgenza, qualificandosi di fronte alla direzione aziendale, come la vera controparte del processo di riconversione e della futura gestione dell’impresa, con una progressiva erosione dei poteri del management, in nome della difesa del “bene comune”.
  4. Che si tratta comunque di un processo conflittuale che non può restare confinato, pena la sua sconfitta, in un ambito prettamente aziendale, ma che riesce vincente se rimarca sul territorio interessi sociali e politici irrinunciabili, anche quando non vengono rappresentati dalle forme della governabilità calata dall’alto.