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Un governo per la politica europea. Il paradosso italiano

Sul tavolo del nascente governo Draghi sono molti i dossier urgenti sull’Europa – dal fisco all’immigrazione, dalla giustizia alla governance, dal modello di sicurezza alle relazioni con gli altri blocchi geopolitici – che interrogano la sua capacità di azione e il suo spazio di manovra nella Ue.

Se i partiti politici – senza eccezioni, da Leu alla Lega – non fossero così impegnati a rilasciare cambiali in bianco al presidente del consiglio incaricato, ignorando le regole più elementari della Costituzione di impostazione parlamentare, avanzerebbero pubblicamente delle richieste corrispondenti ai propri orientamenti, in attesa di verificare quale riscontro trovino nel programma in base al quale egli chiederà loro fiducia per governare il Paese.

Giustamente su questo sito Mario Pianta ha individuato nel profilo europeista di Mario Draghi un’opportunità, rafforzata da alcuni risultati ereditati dal governo Conte (le risorse del “Next Generation EU”, la sospensione del Patto di stabilità e del divieto di aiuti di stato alle imprese) che, però, dovranno essere consolidati e specificati in un futuro prossimo. Tuttavia, forte di queste pur precarie acquisizioni, l’eventuale nuovo governo giocherà la propria nobilitade sulla sua capacità di trasformare l’Italia da paese richiedente, perché maggiore colpito dalla pandemia, in elemento propulsore di un processo di unificazione politica dell’Europa. Né vale l’alibi tradizionale dell’esiguità delle forze a nostra disposizione.

A ben vedere, sono proprio i paesi meno condizionati da una fin troppo robusta e gloriosa storia nazionale, o addirittura segnati da pagine ingloriose della propria storia – in primo luogo Germania, Italia, Spagna – ad essere portati a emanciparsi dal proprio passato e a guardare con speranza un futuro di segno diverso. Inoltre, la contingenza segnata dalla conclusione del decennio dominato dal cancellierato di Angela Merkel, richiede ad un’Italia eventualmente guidata da Mario Draghi, e possibilmente più attenta al ruolo di tutti i governi esclusi dall’asse Parigi-Berlino, di assumere le proprie responsabilità di erede della conferenza di Messina, del Trattato di Roma, e oltre.
In una fase storica segnata da una transizione accidentata e pericolosa dal bipolarismo militarizzato e connivente, ereditato dalla guerra fredda, ad una multipolarità non governata, il nostro continente, ancora imprigionato da antichi nazionalismi e inediti sovranismi, rischia di restare terreno di conquista e di possibili conflitti tra soggetti più forti perché unificati al proprio interno: gli Stati Uniti, la Cina, residualmente la Russia, e persino la Turchia, in un area non soltanto geograficamente vicina alla nostra. Come più volte osservato da Angela Merkel, la sola Germania né potrebbe né dovrebbe (secondo l’insegnamento perdurante di Brandt e di Kohl) sostituirsi ad oltre mezzo miliardo di persone, bisognose di una rappresentanza democratica a livello globale.

In primo luogo, il governo italiano è chiamato a trasformare adempimenti che vengono richiesti da Bruxelles in elementi cogenti per l’Europa nel suo insieme. Facciamo alcuni esempi. Ad una riforma fiscale fortemente progressiva (in palese contraddizione con la trumpiana flat tax invocata dal senatore Salvini), in lotta contro l’elusione dei grandi capitali, dovrebbero corrispondere l’abolizione dei paradisi fiscali intra moenia, nella prospettiva di una politica finanziaria unificata europea. Ad una riforma semplificatrice della pubblica amministrazione e della giustizia civile, dovrà corrispondere una riforma di quella penale, senza la quale il contrasto alla corruzione pubblica e privata, il riciclo di denaro sporco, l’illegalità transnazionale delle grandi imprese resterebbero parole vuote, anche a livello europeo. Ad una nostra politica immigratoria, rispettosa delle convenzioni sui diritti d’asilo e, in ogni caso, a salvaguardia delle vite umane, che non abbiano più nulla a che fare con le pratiche messe in atto dai Minniti e dai Salvini, deve corrispondere una politica europea che ponderi equamente oneri e risorse in tutto il territorio continentale, di fronte ad una sfida destinata a restare epocale.

Tutto ciò, è evidente, comporta una politica estera e di sicurezza sempre più unificata che può e deve essere rivendicata e promossa dall’Italia. In che cosa consiste? L’Europa è seriamente minacciata da un’invasione del tremolante erede dell’Unione Sovietica? La minaccia cinese, vera e presunta, non ha certo una configurazione militare. La presenza armata degli Stati Uniti, che ha una dimensione nucleare, corrisponde ad un’esigenza di sicurezza europea? Le guerre indette dagli Stati Uniti sotto la copertura Nato, per lo più perdenti nei loro esiti, corrispondono ad interessi europei? Le politiche, più subite che volute dai suoi membri europei, in Medio Oriente e in Africa, sono compatibili con l’adesione a diritti umani professati, sia Washington che nelle capitali europee, che per avere qualche efficacia, devono essere sostenuti erga omnes, sia a Hong Kong che in America Latina, sia in Ucraina che nei territori dominati da Israele.

E che dire del rispetto di regole democratiche all’interno della stessa Unione Europea? Ursula von der Leyen, ancora ministra della difesa a Berlino è stata tra gli iniziatori di un troppo prudente processo di unificazione militare dell’Europa, tradizionalmente favorito da Parigi. Esso può essere portato avanti nella consapevolezza della freddezza (per usare un eufemismo) dell’amministrazione Biden per le sue immediate ripercussioni sulla Nato che, per le sue caratteristiche intergovernative, comporta, ad oggi, duplicazioni di spesa facilmente eliminabili. A suo tempo responsabile del poco esistente di politica estera europea, Xavier Solana, ispirato da Mary Kaldor, introdusse il principio di sicurezza umana, sostitutivo di quello puramente militarizzato. Cosa ne pensa Mario Draghi? A quale politica, italiana ed europea, vuole impegnare il suo governo e il parlamento che lo potrebbe consacrare tale?