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Terre rare, l’oro del futuro in mano a Cina e Giappone

La Cina minaccia di nuovo di restringere l’export di terre rare, minerali fondamentali per la tecnologia e le batterie delle auto elettriche ma anche per gli armamenti, incluso gli F35 americani, di cui ha il monopolio. Mentre in Italia i progetti di riciclo sembrano non interessare se non ai ricercatori.

Non si può pensare che per il solo fatto di avere un ministero alla Transizione ecologica come in Francia l’Italia abbia fatto un deciso passo avanti verso un’economia con un’impronta ecologica meno pesante. Questo dato è di per sé lapalissiano, lo è meno accorgersi che anche l’obiettivo dell’Unione Europea di arrivare all’addio ai combustibili fossili entro la fatidica data del 2050, potenziando al massimo trasporti a motore elettrico, fotovoltaico, eolico ed economia circolare non sarà sufficiente per avere un’Europa “verde” e salvare il pianeta dalla catastrofe climatica e ambientale. Sostituire la benzina con la batteria, con batterie sempre più potenti, capaci di immagazzinare l’energia del sole e del vento, è possibile ma ha costi ambientali notevoli. E implicazioni geopolitiche che già iniziano a delinearsi sul reperimento e la raffinazione del nuovo “oro” energetico: le terre rare. 

Le terre rare o lantanidi sono 17 elementi chimici dai nomi curiosi tipo gandolino, ittrio, europio (1), terbio, olmio, tulio, lutezio, che non sono affatto rari sulla crosta terrestre ma hanno impegnato gli scienziati per almeno vent’anni, a partire dagli anni ’30, per essere scoperti e classificati. Poi gli scienziati hanno impiegato altri trenta anni per capire cosa farne. Per loro natura questi ossidi tendono infatti a essere difficilmente districabili e distinguibili, presentandosi in natura spesso legati tra loro in una “zuppa” di minerali. Le loro prestazioni chimiche, anche se usati in percentuali minime, sono fondamentali per tutta la nuova frontiera della tecnologia, dall’elettronica di precisione alle batterie, appunto, al funzionamento delle reti 5G. Sono essenziali nella fabbricazione dei telefonini cellulari, negli impianti di raffinazione del petrolio, in applicazioni sanitarie come certe terapie oncologiche e nella diagnostica per immagini, nelle lampade a Led, nei televisori e negli schermi al plasma o a tecnologia Oled, nei semiconduttori. E “last but not least” nell’industria degli armamenti. 

I quattro quinti di tutte le terre rare assorbite dal mercato mondiale provengono dalla Cina, in particolare dalla Mongolia interna ma non solo. E il governo di Pechino ha recentemente rinnovato la minaccia di contingentare fortemente l’esportazione di questi prodotti, in particolare verso gli Stati Uniti come ritorsione per l’annuncio da parte di Washington di vendere armamenti a Taiwan. Chiudere i cordoni dell’export di terre rare da parte della Cina potrebbe nell’immediato mettere a rischio la produzione dei caccia F35. Ma potrebbe essere un’arma a doppio taglio, come spiega un lungo articolo del Financial Times del 16 febbraio, perché spinge gli Stati Uniti a cercare altre zone del mondo dove estrarli e già in effetti il Congresso americano con una commissione bipartisan ancora in epoca Trump ha sollecitato e agevolato con sussidi l’escavazione di nuove esplorazioni minerarie in questo senso. E il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, a quanto sembra, firmerà entro la fine di febbraio un ordine esecutivo teso ad accelerare gli sforzi di emancipazione dalla Cina delle catene di fornitura per i chip ed altri prodotti strategici del settore tecnologico. Lo scrive il quotidiano “Nikkei”, che ha ottenuto una copia della bozza del decreto, e secondo cui tale iniziativa strategica verrà assunta in partenariato con Taiwan, Giappone e Corea del Sud. Il decreto si concentrerà in particolare su semiconduttori, batterie per veicoli elettrici, le forniture mediche. Le terre rare, insomma. Gli Stati Uniti intendono condividere informazioni con i Paesi alleati in merito alle catene di fornitura strategiche, e agevolare lo sviluppo di produzioni complementari.

Pechino avendo il sostanziale monopolio della raffinazione – anche le terre rare estratte in Australia o in Texas devono andare in Cina per essere raffinate – determina i prezzi di queste materie prime, che sono tenuti molto bassi perché la loro estrazione e lavorazione, in Cina e nei territori amministrati o gestiti dalla Cina come il Myanmar, non rispettano gli standard ambientali di tipo occidentale. Tanto che il contingentamento dell’estrazione di questi ossidi è giustificato dal governo cinese anche da una maggiore attenzione all’ambiente. Le lavorazioni vengono così maggiormente spostate in territori non cinesi, come appunto la ex Birmania, che è possibile sia stata recentemente destabilizzata anche dai conflitti geopolitici sotterranei legati a questo minerale strategico. 

Anche la Cina stessa, del resto, ha sempre più fame di terre rare per le sue industrie, visto che solo per quanto riguarda l’automotive conta di avere un parco auto al 20 per cento ibrido o elettrico già entro il 2025. 

Gli Stati Uniti monitorano pertanto ciò che succede nell’isoletta più orientale dell’arcipelago del Giappone, dove è stato scoperto un immenso giacimento di terre rare: l’isola di Minami Torishima o “dell’uccello meridionale”. E’ poco più di un atollo, un triangolo di terra emersa lunga un chilometro esatto, battuta da onde fino a sei metri e dai venti e finora utilizzata solo come postazione meteo dal Giappone. L’isoletta spersa nel Pacifico è stata contesa tra Giappone e Stati Uniti, che l’avevano ribattezzata isola Marcus, fino all’anno 1968. Adesso gli Usa devono rimpiangere amaramente questa perdita, perché dopo l’annuncio del 2017 della Waseda university e dell’università di Tokyo, è nelle sue acque che si è scoperto il tesoro del Ventunesimo secolo: 16 milioni di tonnellate di ossidi di terre rare, capaci di rifornire il mondo agli attuali livelli di consumo di questi minerali per 420-780 anni, secondo le ultime valutazioni di un team di scienziati nipponici risalenti a giugno. I preziosi ossidi sono in concentrazione eccezionalmente densa nei fanghi sulle pendici di una montagna sottomarina a tre miglia di profondità ma a ridosso dell’isoletta. La missione scientifica nipponica, come ha raccontato la rivista Scientific American, ha ricostruito che si tratta di un sedimento fossile risalente a 34,4 milioni di anni fa, quando dopo un periodo di caldo e fioritura di vita nella zona antartica, la glaciazione repentina della calotta intrappolò nelle ossa dei pesci questi elementi a bassa radioattività. 

Al momento i costi di estrazione di questi fanghi superdosi di terre rare sono proibitivi e anche in questo caso dovrebbero essere valutati anche i costi indiretti della contaminazione di una zona di mare ancora incontaminata. Ma se le energie rinnovabili dovessero davvero avere un boom, in particolare le mega batterie per gli impianti eolici offshore e quelle per le auto elettriche di una popolazione mondiale che presto raggiungerà i dieci miliardi di abitanti del pianeta, è possibile che si arriverà a sfruttare le risorse di Minami Torishima. La casa automobilistica Toyota si è già accaparrata, quest’estate, un contratto in tal senso. L’alternativa a ciò può essere soltanto un riutilizzo delle terre rare contenute nei prodotti in uso. La tecnologia sarebbe forse meno “spaziale” ma avrebbe senz’altro bisogno di un’economia circolare vera, tutta improntata al riciclo dei rifiuti e dei componenti. Sarebbe un’economia a più alto tasso di lavoro, ma meno appetibile per le grandi industrie, estrattive e non. Sicuramente un’economia di pace. 

La vicenda dell’isola giapponese dell’Uccello meridionale e delle miniere del Myanmar non è così remota. L’Ue ha progetti per costruire una mega batteria europea e ha inserito anch’essa le terre rare tra i minerali strategici. I ricercatori del Politecnico di Torino stanno valutando le zone dell’Italia dove potrebbero trovarsi giacimenti di terre rare. Una delle aree candidate alle ricerche è quella mineraria dell’Iglesiente in Sardegna. Altri ricercatori dell’università La Sapienza di Roma stanno lavorando in laboratorio per cercare metodi di separazione delle terre rare nei dispositivi elettronici e nelle batterie mandate al macero, per ora ci sono riusciti con le lampadine al neon. Ma finora nessuna industria italiana si è interessata realmente ai loro studi. E il riciclo al momento, dalle isole ecologiche ai consorzi di smaltimento, è limitato alle parti di plastica e vetro all’interno dei dispositivi elettronici e a non disperdere i materiali tossici nell’ambiente. Considerato che a Bruxelles proprio per evitare il cosiddetto carbon leakage, cioè la delocalizzazione di attività produttive inquinanti in paesi poco controllati  c’è l’idea di introdurre una tassa di importazione, chiamata Carbon Border Adjustement Mechanism (Cbam) e viste le complicazioni geopolitiche, una vera economia circolare dovrebbe invece essere una delle priorità anche del Recovery plan italiano rivisto e corretto.

NOTE

  1. “L’europio può emettere luce…ma non è molto ferrato nella materia. Come i suoi fratelli lantanidi non riesce a assorbire con efficienza la luce e il calore (uno dei motivi per cui questi elementi sono difficili da identificare). Ma la luce è la moneta corrente nel mondo atomico convertibile in molti modi ne in effetti i lantanidi riescono a emetterla sotto forma diversa: la fluorescenza, fenomeno familiare a chiunque abbia visto un poster psichedelico. (..) A seconda della molecola in cui è coinvolto l’europio può dar vita a luce rossa, verde o blu. Questa versatilità è la bestia nera dei falsari e rende l’europio un ottimo strumento per combattere le contraffazioni. Per tale motivo l’Unione Europea usa l’elemento eponimo nell’inchiostro con cui stampa gli euro. Un pigmento fluorescente (nessuno sa quale perché la normativa europea pare proibisca la divulgazione della sua composizione chimica) è legato ad alcuni ioni di europio. (…) I pigmenti sono studiati in modo tale da farli apparire non fluorescenti se esposti alla luce normale così che un falsario potrebbe pensare di aver realizzato la banconota perfetta. Ma se illuminiamo bunkerante biglietto con luce polarizzata, tutto cambia: sullo sfondo della carta diventata nera emergono vari filamenti colorati, orientati in modo casuale. La mappa schematica dell’Europa si colora in verde e sembra rappresentare un continente visto da qualche alieno dallo spazio. Una ghirlanda di stelle normalmente color pastello acquisisce una colorazione gialla o rossa e i monumenti raffigurati sulle banconote così come le firme e le varie filigrane splendono di un blu brillante. Basta che manchi una sola di queste caratteristiche per essere sicuri che ci si trova di fronte ad un falso. (..)Questo effetto è difficile da riprodurre senza complesse competenze. I pigmenti all’europio rendono l’euro la carta moneta più avanzata mai vista.” (Sam Kean “Il cucchiaino scomparso r altre storie della tavola periodica degli elementi” ed. Adelphi. 2010)