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L’eredità di Trump nei rapporti Usa-Cina

Biden eredita da Trump la tensione commerciale con Pechino. E soprattutto i suoi effetti, tra cui la maggiore autonomia tecnologica della Cina e la sua maggiore integrazione con altre economie, a partire da quella europea.

Giappone, Unione Sovietica, Cina: ma ora la musica cambia

Dunque, anche se al momento in cui scriviamo non c’è ancora una proclamazione ufficiale dei risultati, con qualche maggiore fatica del previsto e a meno di peraltro improbabili ribaltamenti del risultato da parte di qualche tribunale stravagante, Joe Biden dovrebbe essere diventato il nuovo presidente degli Stati Uniti.

Questa fase del post-elezioni può essere un momento opportuno per cercare di fare un bilancio della presidenza Trump almeno per quanto riguarda i rapporti con la Cina e le possibili prospettive che si pongono ora sulla questione con la nuova gestione.

Quello che si può sinteticamente anticipare è che lo sforzo degli Stati Uniti, perseguito per tutta la legislatura, di bloccare, o per lo meno, arginare l’avanzata economica, tecnologica, finanziaria cinese sembra, per il momento almeno, largamente fallito, mentre pensiamo che anche Biden tenterà in qualche modo, sia pure con qualche sfumatura, la stessa strada. Repetita iuvant?

Il governo americano, nell’aprire un duro contenzioso con il Paese asiatico, sperava a suo tempo di riuscire a ottenere più o meno gli stessi risultati che aveva conseguito qualche decennio fa con il Giappone e con l’Unione Sovietica. 

Il primo Paese stava in qualche modo minacciando il primato Usa nelle nuove tecnologie e nella finanza, ma gli Stati Uniti, approfittando anche della subordinazione politica del Giappone, lo costrinse ad abbassare presto la guardia; da allora esso non si è più sostanzialmente ripreso.

Con l’Unione Sovietica il gioco riuscì altrettanto facilmente vista la sua debolezza economica, finanziaria, tecnologica e il suo scarso inserimento nell’economia mondiale.

Ma con la Cina ora si tratta di un’altra storia. Come ha scritto di recente l’Economist (The Economist, 2020), l’ipotesi di base degli americani era quella che la Cina si stesse sviluppando solo grazie ad una forte crescita del debito, ai sussidi pubblici, al furto di proprietà intellettuale e così via; bastava quindi esercitare adeguate pressioni e la sua economia si sarebbe piegata, obbligando i leader del Paese asiatico a fare delle ampie concessioni all’America e, in tale ambito, tra l’altro, a privatizzare il sistema dell’economia di Stato. 

Mais la suite prouva que non, come racconta una vecchia canzone di Brassens e le analisi di Trump e Pompeo si stanno rivelando del tutto inconsistenti. La Cina è un osso ben più duro dei primi due Paesi sopra citati; esso non ha la debolezza politica del Giappone e quella economica, tecnologica e finanziaria dell’Unione Sovietica, mentre, sempre a differenza del secondo Paese citato, è strettamente integrata nell’economia mondiale, con un sistema industriale estremamente competitivo. 

Sembra in qualche modo difficile, a questo proposito, credere tra l’altro che, nonostante l’esistenza negli Stati Uniti di raffinati centri studi e analisi strategica, di università tra più prestigiose del mondo, intasate di studiosi autorevoli, di servizi di spionaggio persino leggendari e comunque dotati di mezzi abbondanti e di tecnologie di punta, non si sia riusciti a disegnare un ritratto realistico della situazione cinese. Bastava leggere qualche buon libro.

I rapporti commerciali tra i due Paesi: tutto più o meno come prima

Intanto. Mentre gli Stati Uniti sono ancora nel pieno di una pandemia che non riescono a governare e mentre le previsioni economiche per il 2020 per gli Usa sono negative, la macchina economia cinese, superato apparentemente in modo brillante il problema del virus, appare ormai in pieno boom; il 2020 si dovrebbe chiudere con una crescita del Pil intorno al 2,0%, mentre alcune previsioni per il 2021 parlano di un suo aumento possibile dell’8,2%. 

La produzione industriale si colloca ormai a livelli record e le esportazioni si trovano anch’esse in territorio molto positivo. Tra l’altro, il livello dei noli per il trasporto marittimo dalla Cina agli Stati Uniti è recentemente esploso per la forte domanda di servizio e anzi non si trovano tutte le navi necessarie per trasportare le merci che i consumatori e le imprese americane domandano al Paese asiatico per le prossime settimane.

Più in generale, sul fronte della bilancia commerciale, il deficit degli Stati Uniti con la Cina, nonostante le tariffe, gli accordi le minacce di Trump, è rimasto più o meno allo stesso livello che aveva al momento dell’insediamento. Nei settori in cui si è manifestato qualche cedimento il vuoto è stato riempito dai produttori di altri Paesi, Europa, Messico, Giappone, Taiwan, ecc., per cui la situazione della bilancia commerciale Usa non ha mostrato alcun miglioramento (Plender, 2020).

La Cina ha invece ridotto le importazioni dagli Stati Uniti ed aumentato quelle da altri Paesi. 

Secondo una stima, la guerra commerciale tra i due Paesi ha ridotto di 1,7 trilioni il valore di mercato delle imprese Usa, mentre le stesse imprese hanno dovuto intanto accettare più bassi margini di profitto, ridurre i salari e l’occupazione ed aumentare i prezzi (Plender, 2020), con relativo danno per i consumatori.

Lo spauracchio tecnologico

Le cose non sembrano dover andare molto meglio per Trump sul piano della lotta tecnologica, forse il cuore del problema. In questo caso il presidente Usa, al fine di frenare lo sviluppo del settore nel paese “nemico” e l’affermazione dei grandi gruppi cinesi sui mercati internazionali, ha cercato in particolare di bloccare Huawei e ZTE, Tik Tok e Wechat, oltre che altre entità minori.

Ma la gran parte degli osservatori qualificati sembrano suggerire che mentre la Cina potrebbe subire qualche problema anche di un certo peso nel breve termine per i provvedimenti di Trump, nel medio termine ne potrebbe uscire persino rafforzata, essendosi ora organizzata in maniera più decisa per puntare velocemente all’autonomia tecnologica, anche se indubbiamente il raggiungimento del traguardo non sarà del tutto semplice.

Mentre la giustizia americana sembra avere per il momento bloccato le azioni di Trump contro Tik-tok e Wechat, per quanto riguarda Huawei le notizie relative ad una qualche sua grave difficoltà ad andare avanti senza le tecnologie e i prodotti Usa, sembrano diventare meno negative con il passare delle settimane. 

Come è noto, l’impresa opera in due settori principali, le reti di telecomunicazione (area di business nella quale detiene un importante avanzo tecnologico sui concorrenti) e gli smartphone. Ora la stampa ci informa che per quanto riguarda il primo settore la società sta avviando un impianto a Shangai per produrre da sola i chip che servono allo stesso, mentre per gli smartphone sembra in vista una qualche soluzione di ripiego; intanto, l’azienda, per mantenere una rilevante crescita del suo fatturato, sta anche inserendosi in altri comparti, in particolare in quello del cloud computing, area in cui la Cina è partita con una certo ritardo e nella quale gli spazi a disposizione sembrano rilevanti.

Da segnalare in ogni caso la prudenza della risposta del governo cinese nei confronti delle pur pesanti azioni ostili statunitensi sul fronte delle tecnologie (eppure le possibili contromosse non mancherebbero); forse si aspettava di vedere quale sarebbe stato l’esito delle elezioni per decidere il da farsi. Qualcosa potrebbe quindi succedere nei prossimi mesi.

La finanza: Cina e Wall Street a braccetto 

La forte e tradizionale presenza, anche con impianti produttivi, di molte imprese americane in Cina non registra alcun rilevante arretramento o chiusura, nonostante i reiterati auspici di Trump, né si segnalano importanti movimenti da parte delle aziende di altri Paesi. Va semmai segnalato che, in questo momento, la tenuta di interi comparti industriali dei Paesi esteri, dall’auto tedesca agli aerei francesi, al lusso francese e italiano, dipendono dalla tenuta del Paese asiatico.   

D’altro canto, si può parlare di una crescita ulteriore dei legami delle imprese cinesi con il mondo finanziario statunitense. Nonostante le minacce del presidente americano uscente, continuano i collocamenti in Borsa di aziende del Paese di Mezzo sui mercati di borsa Usa, anche se alcune di esse hanno preferito ripiegare ormai su Shangai e Hong Kong. Il gigantesco collocamento sul mercato di queste due località delle azioni di Ant Financial, per le quali le offerte degli investitori sono state quasi pari a 100 volte le somme richieste dall’azienda, mostrano quali siano anche sul fronte finanziario i progressi cinesi e le attese dei mercati occidentali, anche se l’operazione è stata bloccata temporaneamente dalle autorità di controllo del Paese.

Nell’ultimo periodo e sino a questi ultimi giorni il governo di Pechino ha progressivamente provveduto a liberalizzare l’ingresso dei capitali stranieri sui mercati finanziari interni. Ormai non esistono quasi più ostacoli alle attività che una banca o una società finanziaria straniera può svolgervi. Le società, in prima linea quelle statunitensi, vi si stanno precipitando, mentre un’ondata di capitali stimati in breve termine in 140 miliardi di dollari si è affrettata ad acquistare obbligazioni ed azioni in yuan. Così, mentre Trump ha continuato a parlare di decoupling, si vanno stringendo invece i legami della Cina con Wall Street (Hale, Lockett, 2020).

Alla fine, Trump o Biden non cambia molto 

Come già accennato, i tentativi Usa di bloccare l’avanzata economica, commerciale, tecnologica cinese e di isolare il Paese asiatico sulla scena mondiale sembrano alla fine destinati ad uno scarso successo. 

Come ha scritto in proposito, ad esempio, The Banker (Caplen, 2020) poche ore prima delle elezioni presidenziali, “è difficile pensare che altri quattro anni di rumoreggiar di sciabole da parte di Trump o una strategia dai toni più sommessi da parte di Biden possano essere in grado di rallentare la Cina sul fronte economico o su quello tecnologico”. 

Alla fine è, tra l’altro,  in atto, grazie anche alla pandemia, una certa accelerazione nei processi di rattrapage da parte del Paese asiatico nei confronti degli Usa su tutti i fronti; la Cina marcia apparentemente ormai, con una certa tranquillità, verso il primato mondiale, anche se ovviamente il corso della storia presenta di frequente delle giravolte improvvise e  imprevedibili; tutto questo mentre i legami tra l’industria e la finanza statunitense e la Cina restano forti o addirittura si fanno più stretti.

Si può a questo punto cercare di ipotizzare quali saranno le linee della politica verso la Cina da parte del nuovo inquilino della Casa Bianca, personaggio che non sembra comunque presentare un profilo da grande statista e che nei suoi movimenti sarà fortemente impedito, oltre che dai suoi stessi limiti politici, dal controllo da parte repubblicana della Corte Suprema e probabilmente del Senato (anche se sarà chiaro solo fra qualche mese chi controllerà quest’ultimo organismo). 

Le linee della politica della nuova presidenza appaiono molto nebulose per quanto riguarda le singole questioni (ma sul commercio Biden ha dichiarato che, se eletto, avrebbe intrapreso azioni aggressive contro la Cina), ma ci sembra di poter immaginare che potranno cambiare alcuni aspetti della stessa, magari con la riduzione di qualche asprezza formale, cosa peraltro non scontata. 

Si potrebbe a questo proposito ipotizzare che, mentre il presidente uscente trattava direttamente con i singoli paesi, esautorando per molti aspetti gli organismi e gli accordi multilaterali, Biden tornerà probabilmente a utilizzarli di nuovo. Ciò potrebbe contribuire a rendere meno drammatici i confronti sulle singole questioni. 

Ma sul fondo il nuovo presidente cercherà presumibilmente di continuare la politica di Trump, provando a contrastare in molti modi, anche se probabilmente invano, l’ascesa del Paese asiatico. Qualcuno arriva semmai ad ipotizzare un ulteriore inasprimento nel tempo dei rapporti tra i due rivali.  

Su questo punto ci sembra, del resto, che negli Stati Uniti ci sia una sostanziale identità di vedute nei due campi politici e nella stessa opinione pubblica, tutti uniti nel timore di un declassamento del loro paese. Gli Usa non sembrano prendere atto della realtà e peraltro anche della necessità che il mondo avrebbe di una collaborazione stretta tra i due Paesi per combattere i cambiamenti climatici, il virus, la povertà e tanti altri problemi globali.

Previsioni pessimistiche vengono in ogni caso dal mondo degli affari. Così, un’indagine svolta dall’American Chamber of Commerce di Shanghai (Caixin Global, 2020) in queste settimane indica che circa la metà delle imprese statunitensi presenti in Cina prevedono che le tensioni commerciali tra gli Stati Uniti e il Paese asiatico permarranno a lungo e comunque almeno per i prossimi 3-5 anni. 

Speriamo solo che i tentativi di contrasto nei confronti del Paese di Mezzo non superino certi livelli di guardia.

Testi citati nell’articolo

-Caixin Global, Whether Trump or Biden, either could seek to end tariffs during new presidency, businesses say, www.caixinglobal.com, 5 novembre 2020

-Caplen B., This week’s big party will be in Shanghai, The Banker, 3 novembre 2020 

-Hale T., China boosts foreign access to huge onshore capital markets, www.ft.com, 1 novembre 2020

-Plender J., Chinese economy outstrips US despite Beijing bashing, www.ft.com, 2 novembre 2020

The Economist, Xi’s new economy, 15 agosto 2020