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Le crisi dell’industria e la strategia dello stallo

La recessione ha dato alle aziende un alibi perfetto per giustificare tagli, chiusure e delocalizzazioni e rivedere piani industriali già approvati. La strategia del governo è prendere tempo, rallentando un declino che appare ormai inesorabile.

Durante i mesi di lockdown, non è quasi passato giorno senza che al ministero dello Sviluppo economico (Mise) si riunisse un tavolo di crisi. Si è trattato di riunioni virtuali, in videoconferenza, per evitare assembramenti e contagi trasversali tra amministratori delegati, funzionari governativi e rappresentanti sindacali. A quelle più importanti ha partecipato pure il ministro pentastellato Stefano Patuanelli. I verbali degli incontri raccontano di una strategia dello stallo che diluisce e rallenta il decorso dell’inesorabile declino industriale italiano, senza però che questa serva a fermarlo o a invertire la rotta. 

Anzi, subito dopo la riapertura, la Jabil, un’azienda che produce componenti elettronici, ha fatto capire come sarebbe stato il futuro industriale dell’Italia dopo la pandemia, compiendo il primo passo di quella che rischia di essere una lunga stagione di licenziamenti e ristrutturazioni. Alla fine di maggio la multinazionale americana ha licenziato in tronco 190 dipendenti dello stabilimento di Marcianise, nel Casertano, senza concedere la cassa integrazione per il coronavirus prevista dalla legge e senza rispettare il divieto di licenziamenti fino alla fine dell’estate deciso dal governo. Nella lista delle persone da mandare via la multinazionale americana non aveva riguardo per nessuno: c’erano marito e moglie entrambi dipendenti, il consorte di una donna già incentivata all’esodo negli anni passati e pure il genero di un imprenditore ucciso dalla camorra. Di fronte alle proteste per l’insensibilità dei manager d’oltreoceano, il 3 giugno l’azienda ha fatto una parziale marcia indietro, concedendo gli ammortizzatori sociali senza però recedere sul taglio del personale. Il 21 giugno, in una nota unitaria i sindacati confederali si sono detti “fortemente preoccupati per gli ulteriori cali di commesse”, anticamera della dismissione o di nuovi tagli.

Un anno fa, i tavoli di crisi aperti al Mise erano 144, appena cinque in meno. A spulciare l’elenco, si scopre che poco o niente è cambiato. Anche alcuni casi che sembravano in via di risoluzione, come quello della Bekaert di Figline Valdarno o della ex Embraco torinese, rimangono delle piaghe aperte, appena tamponate dagli ammortizzatori sociali. La recessione post-pandemia concede alle aziende un alibi perfetto per giustificare tagli, chiusure e delocalizzazioni già previste, e per non rispettare accordi siglati e piani industriali approvati, spesso scaricando i debiti sulle aziende dell’indotto e sullo Stato. Dalla Whirlpool di Napoli che chiuderà a fine ottobre mandando a casa 450 operai alla Porto Industriale Cagliari Spa, dalla Blutec di Termini Imerese alla Bosch di Bari, quasi 300 mila lavoratori rischiano il posto entro l’autunno. Ottantamila di questi sono nel settore metalmeccanico e per questo la Fiom-Cgil chiede il blocco dei licenziamenti.

Il governo sembra impotente, ma soprattutto non pare avere una strategia per mantenere le produzioni in Italia o per indirizzare su un altro binario un modello di sviluppo fondato sull’industria pesante e sulla manifattura. Emblematico è il caso della Whirlpool, che da un anno prova a lasciare lo stabilimento di Napoli, un piccolo gioiello con standard tecnologici e produttivi nordeuropei, per spostare la produzione di lavatrici dal sud Italia verso la Polonia e la Cina, dopo aver già ridimensionato il polo casertano di Carinaro trasformandolo in un deposito di pezzi di ricambio. Il 16 gennaio, in una riunione al ministero dello Sviluppo economico l’amministratore delegato per l’Italia, Luigi La Morgia, ha sostenuto che l’impianto di Napoli perde venti milioni di euro all’anno e non c’è più la sostenibilità economica per la produzione di lavatrici. Chi era presente ricorda una frase del ministro pentastellato Stefano Patuanelli che ha fatto storcere la bocca ai rappresentanti dei lavoratori: “Non ho strumenti per fermare una multinazionale”. 

In realtà, uno strumento per costringere la Whirlpool a non delocalizzare ci sarebbe. È il Piano industriale 2019-2021, firmato il 25 ottobre 2018 allo stesso Mise dall’allora ministro Luigi Di Maio, dai rappresentanti dell’azienda, dai sindacati e dalle Regioni che ospitano gli stabilimenti italiani. L’accordo prevede, in cambio di ammortizzatori sociali e incentivi economici, un investimento di 17 milioni di euro per creare a Napoli un polo per la produzione di lavatrici di alta gamma. L’accordo è stato messo in discussione dalla multinazionale americana dopo appena sei mesi, senza nessuna obiezione dal ministero di via XX Settembre. Il 31 maggio 2019, la multinazionale americana ha annunciato ai sindacati che la fabbrica sarebbe stata chiusa di lì a qualche mese. “Ci mostrarono un grafico con tutti gli stabilimenti europei, solo quello napoletano era barrato con una X rossa”, ha ricordato Vincenzo Accurso, rappresentante sindacale della Uilm. Poco dopo, i lavoratori hanno ricevuto una lettera nella quale veniva annunciato il loro trasferimento a un’altra società, la Passive refrigeration solutions (Prs), una “start up” dai finanziatori sconosciuti, senza neppure un sito web e che non ha mai prodotto nulla, con sede al numero 16 di corso Elvezia a Lugano. Nulla più che una “bucalettere”, una casella postale, come l’hanno definita i media svizzeri. 

Il governo ha creduto alle parole della Whirlpool senza chiedere all’amministratore delegato di sostanziare le perdite della succursale napoletana mostrando i bilanci. Al termine della riunione di metà gennaio, il ministro dello Sviluppo economico ha proposto di dare un mandato all’amministratore delegato di Invitalia, Domenico Arcuri, per cercare un compratore. L’amministratore delegato La Morgia, un pescarese di 43 anni che aveva cominciato la scalata ai vertici dell’azienda proprio come direttore dello stabilimento partenopeo, ha acconsentito. Il 16 marzo lo stesso Arcuri è stato poi nominato dal governo commissario straordinario per l’emergenza Covid-19 e al Mise nessuno si è più occupato della Whirlpool. La fabbrica chiuderà i battenti il 31 ottobre e a via XX Settembre pensano ancora che la salvezza potrebbe arrivare dalla società “bucalettere” di Lugano.

Non è andata meglio per le acciaierie, dove si assiste a un progressivo smantellamento senza che da nessuna parte ci siano piani di riconversione di alcun genere. Se Jindal a Piombino stenta a decollare e a Trieste il 9 aprile la Ferriera ha spento l’altoforno, all’Ilva di Taranto il 5 giugno Arcelor Mittal ha presentato l’ennesimo piano industriale: un documento di cinquecento pagine nel quale la multinazionale prevede un calo della produzione a sei milioni di tonnellate l’anno, utilizzando tre altiforni su cinque, e 3.200 esuberi, ai quali vanno aggiunti i 1.800 lavoratori già in cassa integrazione che l’azienda aveva promesso di reintegrare. Anche in questo caso il Covid-19 c’entra poco, perché l’azienda ha approfittato dell’emergenza virus per confermare i tagli già previsti ed evitare di riassorbire i cassintegrati di lunga data delle aree a freddo, come previsto dall’accordo stipulato al momento dell’acquisto. 

Il 28 maggio, agli Acciai Speciali Terni l’amministratore delegato Massimiliano Burelli ha spiegato in videoconferenza al ministro Patuanelli che per quest’anno “stimiamo un calo del 35 per cento di acciaio fuso rispetto al milione di tonnellate che ci eravamo posti come obiettivo”, “una riduzione delle spedizioni dell’80 per cento” per il tubificio e “tra il 30 e il 40 per cento” per il “freddo”, destinato alle filiere dell’auto e degli elettrodomestici. Alle storiche acciaierie ternane, nonostante il progressivo ridimensionamento, lavorano ancora 2.350 persone e una loro crisi sarebbe un vero e proprio terremoto per una città che da più di un secolo ruota attorno alla fabbrica.

A Terni è esplosa pure la crisi della Teofran, un’azienda che produce film alimentari e impiega centocinquanta persone. I proprietari, il gruppo indiano Jindal, hanno già chiuso lo stabilimento di Battipaglia, nel Salernitano, mandando a casa ottanta lavoratori e spostando i macchinari verso altri stabilimenti all’estero, e ora potrebbero apprestarsi a fare lo stesso in Umbria. Qui nel giro di un anno si è passati da una produzione di mille tonnellate ad appena duecentoquaranta, nonostante le richieste siano aumentate perché molte aziende che producono biscotti e merendine hanno dovuto sostituire le confezioni preparate per le Olimpiadi e gli Europei di calcio, sospesi a causa del Covid-19. L’11 giugno i lavoratori hanno scioperato e il 17 l’azienda si è presentata al tavolo convocato al Mise con un piano industriale diverso da quello inviato ai sindacati. L’amministratore delegato Manfred Kaufmann ha mostrato delle slide nelle quali si evidenziava la crisi del settore e una contrazione dei volumi prodotti, annunciando un taglio di dodici posti di lavoro. 

In coincidenza con il lockdown, è esplosa pure la crisi del terzo gruppo italiano, le Acque Minerali Italiane (Ami) del gruppo Pessina. Il 28 febbraio l’Ami ha chiuso improvvisamente gli stabilimenti di San Gemini e Amerino, da dove escono le omonime acque e pure l’Aura, la Fabia e la Grazia, spedendo gli 86 dipendenti in cassa integrazione. Motivo: mancavano i tappi per chiudere le bottiglie, tutte di plastica perché la linea del vetro che per decenni aveva caratterizzato il marchio Sangemini era già stata fermata un anno fa dagli acciacchi e dall’assenza di manutenzione. L’azienda non aveva soldi per pagare i fornitori. Il 2 marzo, a impianti fermi, la società ha presentato al tribunale di Milano una richiesta di concordato preventivo “in bianco”. Il 12 marzo, azienda e sindacati si sono riuniti in videoconferenza con il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli per discutere della situazione. L’amministratore delegato Massimo Pessina ha annunciato la riapertura al 60 per cento dello stabilimento di San Gemini e promesso un piano industriale entro il 18 giugno. Gli operai sono tornati al lavoro il 16 marzo, ma la produzione a scartamento ridotto, su una sola linea, ha fatto quasi sparire le acque umbre dagli scaffali dei supermercati. Nemmeno a dirlo, dopo tre mesi del piano industriale non c’era ombra.

Rischia grosso pure il polo degli occhiali, che impiega 18 mila persone tra il Bellunese e il Friuli. Nei primi tre mesi dell’anno, le vendite di occhiali sono calate del 21,4 per cento e la Safilo si è vista cancellare una commessa di duecento milioni di euro da parte di Dior per la produzione di occhiali di lusso. La multinazionale di origini italiane, dal 2009 di proprietà del fondo olandese Hal, ha così deciso di tagliare duecentocinquanta posti a Martignacco, in Friuli, quattrocento nella fabbrica di Longarone, nel bellunese, e altri cinquanta a Padova, e di spostarsi in Cina. Il 25 maggio ha annunciato un accordo con Ports Asia, una holding cinese dalla quale ha ottenuto “una licenza decennale per il design, la produzione e la distribuzione di occhiali da sole e montature da vista”. Il 29 maggio, ultimo giorno di lavoro a Martignacco, gli operai hanno lasciato la fabbrica tappezzandola di messaggi. “Abbiamo lavorato fino all’ultimo pezzo con le lacrime agli occhi nonostante sapessimo che oggi avremmo scritto la parola fine”, si leggeva su un post-it incollato a una vetrata. 

Il Covid-19 ha fatto emergere pure la profonda sofferenza del settore calzaturiero. Negli ultimi mesi hanno presentato richiesta di concordato “in bianco” la Conbipel, un’azienda astigiana controllata dal fondo americano Oaktree e con negozio principale in corso Buenos Aires a Milano, la Pittarosso di Legnano, controllata dal fondo Lion Capital, e la torinese Scarpe&Scarpe. In tutti e tre i casi, il pre-fallimento è stato motivato con la chiusura dei negozi a causa del Covid-19 e l’azzeramento delle vendite, anche se in realtà tutte avevano una pesante situazione debitoria alle spalle. A rischiare il posto sono in totale circa seimila dipendenti. La strategia del governo è prendere tempo, allungando i tempi della cassa integrazione e bloccando i licenziamenti, con l’intenzione di diluire le crisi nel tempo e non farle precipitare tutte insieme, accompagnando il declino italiano senza invertirne la rotta.