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Andrà a finire bene? Come sta funzionando il Ssn

Di fronte al Covid-19 il Servizio sanitario nazionale sconta limiti e aporie. Ma mostra anche grandi doti di resilienza, che affondano le radici in un patrimonio quarantennale di lotte sociali, competenze e idealità a cui si deve tornare a guardare. Consapevoli che “per le cose difficili, ci vuole intelligenza collettiva”.

L’importanza di un Servizio sanitario nazionale

Un sistema sanitario che garantisce una copertura universale, finanziato attraverso la fiscalità generale e con una capacità di intervento sia preventivo che diagnostico-terapeutico, a livello territoriale e a livello ospedaliero, è l’unica organizzazione capace di affrontare efficacemente una condizione come quella legata all’attuale infezione da coronavirus: un’infezione che presenta sia un’ampia diffusione, sia un’elevata letalità e un altissimo assorbimento di risorse concentrati su un segmento relativamente ristretto di popolazione.

Nessuno schema di assicurazione, privata o sociale, che si basa sul principio di equivalenza fra contribuzione e benefici e separa necessariamente la prevenzione collettiva dall’assistenza individuale, può affrontare con eguale ampiezza di intervento e disponibilità di risorse un evento come quello attuale. Ne avevamo avuto una dimostrazione già nei primi anni ’80 con l’infezione da HIV, che abbiamo potuto affrontare potendo contare non sul vecchio sistema delle mutue, ma su un Servizio sanitario nazionale (Ssn), pur nelle primissime fasi della sua attuazione.

La persistente attualità dei principi fondamentali del Ssn a oltre 40 anni dalla sua istituzione dimostra la lungimiranza di una scelta – operata in un momento di grandi ristrettezze economiche conseguenti alle crisi del petrolio degli anni ’70 – che, mentre riparava i guasti contingenti del sistema mutualistico, dotava il paese di una istituzione in grado di affrontare problemi futuri, al momento imprevedibili e addirittura impensabili, come appunto, ad esempio, l’infezione da HIV degli anni ’80 e l’attuale pandemia da coronavirus.

Oggi però il Ssn si trova al centro della più perfetta delle tempeste, la più grave dalla sua istituzione. Come lo sventurato peschereccio del famoso film, dopo essere a stento sopravvissuto a dieci anni di politiche di austerità (i cui numeri sono stati descritti da Chiara Giorgi), il Ssn cominciava appena a intravedere il sole di un’alba incipiente, quando è stato investito dall’onda poderosa della pandemia che, malgrado i motori al massimo, minaccia di inabissarlo.

Superare l’onda poderosa della crisi sanitaria in atto e prepararsi al nuovo ordine mondiale del dopo-crisi ci pone in una condizione in fondo non troppo diversa da quella di 40 anni fa: approntare una risposta immediata ai gravissimi problemi contingenti, “a qualsiasi costo” (whatever it takes, come si usa ormai dire), che dovrà essere non soltanto rispettosa dei principi fondamentali attorno a cui è organizzato il Ssn, ma anche appropriata alla “nuova” normalità che si instaurerà dopo la crisi economica e sociale che seguirà all’attuale crisi sanitaria.

Il primo punto è, naturalmente, il più pressante; il secondo, in tutta evidenza, il più importante. La ricognizione della concatenazione dei fatti che caratterizzano la situazione attuale e condizionano gli sviluppi futuri può aiutare a introdurre i possibili termini di una riflessione che aiuti il Ssn se non a trasformarsi nella farfalla auspicata da Chiara Giorgi, almeno a restare calabrone.

La quotidianità in chiaroscuro

È un fatto storico che i medici durante le epidemie usano fuggire, dal contagio, dall’ira popolare, o da entrambi. Nulla di tutto questo è accaduto in questi mesi in Italia. Al contrario, il troppo alto numero di medici contagiati (e quello certo altrettanto alto, ma purtroppo ignoto, di infermieri) non ha dissuaso alcune migliaia di loro dal proporsi in aiuto ai colleghi delle aree più colpite. Un caso di dedizione professionale e (forse anche) di lealtà istituzionale tanto più significativo se si considera la volatilità della loro immagine pubblica: eroi da qualche settimana, ma dopo mesi di minacce e aggressioni verbali e fisiche.

Nelle regioni più colpite, l’organizzazione degli ospedali, usualmente descritta come ossificata e impervia al cambiamento, è stata rivoluzionata in poche settimane, mostrando una flessibilità e una resilienza inattese. Al di là della frontiera eroica delle terapie intensive, colpisce la rapidità con cui bizantine gerarchie fra strutture dedicate a innumerevoli specialità e fantasiose sub-specialità mediche sono diventate semplicemente “unità Covid” di “ospedali Covid”, e la naturalezza con cui i loro medici e infermieri hanno accettato nuove gerarchie di fatto, basate non sulla reputazione personale e/o sul prestigio della disciplina di provenienza, ma sulle conoscenze più pertinenti alla materia, quelle delle malattie infettive: certo non la più prestigiosa fra le specialità mediche.

Una proprietà pubblica unica (altra caratteristica precipua del Ssn, essenziale in tempi di crisi), assieme a obiettivi e volontà universalmente condivisi, ha realizzato in poche settimane la più grande riconversione nella storia dell’assistenza ospedaliera: una vittoria delle relazioni di fiducia sia rispetto al comando delle relazioni gerarchiche, formali e informali, sia agli incentivi e alle condizionalità delle relazioni contrattuali che hanno dominato le politiche aziendalistiche degli ultimi 20 anni.

Ha forse il Ssn scoperto al proprio interno una inattesa riserva di capitale sociale da mobilitare per le ulteriori trasformazioni che lo attendono non solo dopo, ma anche durante la crisi, che certo non sarà breve? Come preservare le relazioni di fiducia di queste settimane, a dispetto della loro tipica volatilità, di fronte agli ulteriori problemi che già si affacciano?

Infatti, superate le prime settimane comprensibilmente assorbite dai nuovi problemi, l’organizzazione ha percepito un nuovo problema: l’attenzione riservata agli effetti dell’epidemia rischiava di soverchiare quella da dedicare alle patologie “normali” (infarto, ictus, diabete, scompenso cardiaco, eccetera) che, naturalmente, continuano ad affliggere la popolazione. Interventi tampone hanno provveduto ad arrangiare soluzioni provvisorie, come la posticipazione dei ricoveri e degli interventi programmati, percorsi protetti che garantiscono tempestività di soccorso alle patologie “tempo-dipendenti” (come tipicamente l’infarto cardiaco), nuovi programmi di monitoraggio delle gravidanze per le donne infette, in quarantena o soltanto catturate nelle maglie dei cordoni sanitari delle “zone rosse”, e così via.

I più avvertiti hanno realizzato che si andava compiendo sotto i loro stessi occhi il double burden of disease, un problema verso cui la condiscendenza dei sistemi sanitari “moderni” aveva messo in guardia quelli dei paesi “emergenti”. Secondo la teoria, il processo di sviluppo ineguale dei paesi “emergenti” avrebbe prodotto una nuova “patocenosi” (per usare un termine di Mirko Grmek caro a Giovanni Berlinguer) che combinava la persistenza degli effetti sanitari della miseria nelle sacche di arretratezza, come la malnutrizione, con le nuove patologie dell’eccesso (obesità, diabete e simili) prevalenti invece nelle aree a più alto grado di sviluppo e di consumo (si veda ad esempio la recente serie di Lancet in bibliografia).

Nella realtà, la fase europea e poi quella americana della pandemia hanno esposto i sistemi sanitari “moderni” dei paesi “emersi”, e l’Italia per prima, ai problemi del doppio onere. Affrontare la nuova patocenosi richiede di conciliare le logiche della clinica e della sanità pubblica delle malattie da infezione con quelle proprie delle malattie cronico-degenerative che hanno egemonizzato l’attenzione dei programmatori degli ultimi venti anni, anche in Italia, e di tradurre entrambe in forme organizzative integrate dentro sistemi già di per sé estremamente complessi.

La risposta a questo nuovo problema sta, al momento, creando problemi soprattutto nel settore della sanità pubblica e dei servizi territoriali, un ambito particolarmente critico perché dovrebbe contribuire a mitigare la rapidità di progressione del contagio per permettere al sub-sistema ospedaliero di approntare le risorse necessarie per trattare gli infetti. Nell’attuale pandemia la sanità pubblica ha saputo aggiungere poco o nulla agli antichi strumenti di controllo delle epidemie (cordoni sanitari attorno ai sospetti, ribattezzati “zone rosse”, quarantene dei contatti e isolamento degli infetti) adottati da svariati Decreti del presidente del Consiglio dei ministri e innumerevoli ordinanze regionali e comunali.

Uno dei motivi è il salto di paradigma operato negli anni ’70 con il passaggio dalla “old” alla “new” public health, la cui attenzione alle condotte individuali e agli stili di vita personali ha oscurato il concetto di rischio di popolazione (Rose), depauperando la sanità pubblica della sua propria logica interpretativa e sottraendole il suo fondamentale strumento operativo.

Ad esempio, in un contesto in cui il nuovo virus si trasmette capricciosamente secondo catene di contagio di diversa lunghezza, il concetto di rischio potrebbe essere utilmente impiegato come strumento di lettura delle catene delle relazioni sociali (e, spesso e paradossalmente, di solidarietà, si pensi ad esempio ai Centri sociali) che connettono più intensamente le persone e, dal momento che queste sono anche – per estrema perfidia – le catene più efficaci di trasmissione del contagio, ricostruirne retrospettivamente i percorsi e prevederne prospetticamente lo sviluppo.

 Nel contesto della storia del Ssn, l’abbandono del concetto di rischio segna l’oblio della logica e della pratica del “Gruppo omogeneo”, lo strumento intellettuale inventato dalla soggettività operaia per leggere la fabbrica in funzione delle sue lavorazioni e in connessione alle loro nocività e conseguente esposizione a rischio di gruppi specifici di lavoratori, messi così in condizione di acquisire la consapevolezza del problema e di gestirne la soluzione (ora probabilmente si direbbe “empowered”).

Il fallimento del progetto di trasferire il metodo di indagine “dalla fabbrica al territorio” al servizio della popolazione generale è stato uno dei primi segni della decadenza dell’elaborazione dal basso dei movimenti all’origine del Ssn descritti da Chiara Giorgi. Quel “progetto di ricerca” si ripropone oggi come capacità di lettura della concatenazione delle reti di relazioni sociali di piccole e grandi comunità, per la gestione dell’epidemia e per molto altro a venire.

Confini: il disordine istituzionale e la natura composita del bene salute

Autorevoli commentatori hanno osservato che ciascun paese sta combattendo la sua guerra contro il virus, caratterizzata da muri all’ingresso delle persone e competizione per accaparrarsi beni sanitari. Anche se la legge istitutiva del Ssn è cristallina nell’attribuire allo Stato le competenze per “epidemie e epizoozie” (l. 833/78, art. 6, c. 1, lett. b), il contesto internazionale spiega le tensioni fra le Regioni italiane e con il Governo nazionale, in una divisione territoriale fra Nord e Sud esattamente inversa a quella usuale per condizioni di salute, e in cui le regioni del Sud difendono le debolezze dei loro sistemi sanitari dal ritorno dei propri figli.

Le varie forme di competizione in ambito sanitario fra Stati, fra Regioni e fra queste e Governo centrale ha una comune origine nel fatto che la tutela della salute è una funzione complessa che richiede un governo multilivello.

L’esercizio della funzione tutela della salute ha ambiti di espressione contemporaneamente locali (i servizi comunali, distrettuali o di vicinato per gli anziani), regionali (l’assistenza ospedaliera per patologie comuni o tempo-dipendenti), sovraregionali (ad esempio la rete per le grandi patologie complesse degli Istituti di Ricovero e cura a carattere scientifico-IRCCS), ma anche nazionale, sovra-nazionale e addirittura mondiale per il contrasto e il controllo delle epidemie e delle pandemie.

Il governo di una simile funzione multilivello a forte integrazione verticale e orizzontale richiede necessariamente il concorso, a diverso titolo ma con pari dignità, di tutti i soggetti istituzionali a ciascun livello secondo uno schema di governance che, con analogia pasticciera, viene definita “marble-cake” piuttosto che “layer-cake”, a strati separati come un dolce millefoglie.

Uscito indenne dal referendum costituzionale di qualche anno fa, è plausibile assumere che lo shock della pandemia e il nuovo contesto sociale ed economico a livello nazionale, europeo e mondiale, possano spingere il nostro paese, dimenticate puerili pretese di autosufficienza di alcune Regioni, a impegnarsi in una sorta di governo mondiale della salute globale?

La risposta è, naturalmente, impossibile e lo scetticismo inevitabile, almeno per lo storico che ricorda come piani analoghi dei primi anni del secondo dopoguerra attorno alla creazione dell’Onu e poi, sulla sua scia, della Oms, siano stati soffocati dal nuovo ordine mondiale imposto dalla guerra fredda (per una ricostruzione realista del clima e dei dibattiti di un’epoca recentemente evocata dal nostro Presidente, si rimanda alla bibliografia).

Se la storia delle relazioni internazionali induce allo scetticismo, quella della nascita del Ssn propone uno strumento e un metodo. Si sono intensificati negli ultimi tempi gli inviti ad “ascoltare la scienza” e ad “affidarsi agli esperti”, spesso inopinatamente gratificati della qualifica di “scienziati”. La storia della nascita del Ssn brillantemente descritta da Chiara Giorgi dimostra che gli esperti non bastano: “per le cose difficili, ci vuole intelligenza collettiva”, come ammonisce Francesca Re David, segretaria della Fiom, portatrice della memoria di una organizzazione.

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Bibliografia

M. Cueto, T.M. Brown, E. Fee (2019), The World Health Organization. A history. Cambridge: Cambridge University Press.

A. Goraya, G. Scambler (1998), “From old to new public health. Role tensions and contradictions”. In Critical Public Health, 8(2), pp. 141-151.

M.D. Grmek (1969), “Preliminaires d’une etude historique des maladies”. In Annales E.S.C, 24(6), pp. 1473-1483.

G. Rose (1985), “Sick individuals and sick populations”. In International Journal of Epidemiology, 14, pp. 32-38.

J.C. Wells, A.L. Sawaya, R. Wibaek (2019), “The double burden of malnutrition”. In Lancet, 395, pp. 75-88.