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“Coronabond” e commissariamento: il prezzo da pagare?

In un’Europa flagellata dal Covid-19 è in atto un braccio di ferro sugli strumenti finanziari da adottare per sostenere gli Stati membri, e in particolare sulla possibilità di emettere titoli garantiti da tutta l’Eurozona. L’Italia è al centro della contesa. La posta in gioco è la sopravvivenza dell’Unione.

All’emergenza sanitaria legata alla diffusione della pandemia di Covid-19 fa seguito quella economica, un’emergenza che di fatto stiamo già vivendo e che affonda le radici non in un tessuto finanziario malato o negli umori instabili degli operatori circa la tenuta dei conti pubblici, ma nel terreno fertile e precario dell’economia reale. E, come spesso si tende a scordare nell’eterna contrapposizione fra teorie economiche ortodosse ed eterodosse, tale emergenza interessa entrambi i lati del mercato: c’è bisogno di sostenere la domanda, è vero, ma è altresì importante alimentare un tessuto produttivo che rischia inevitabilmente la rottura[1].

È in relazione alle preoccupazioni sulla tenuta di quest’ultimo lato del mercato che si inserisce (e colpisce) l’intervento di Mario Draghi sulle colonne del Financial Times, il quale individua nel debito pubblico il principale strumento su cui ogni Governo deve fare leva per impedire il collasso del proprio sistema economico[2]. In particolare, il principale meccanismo di salvataggio, secondo l’ex Presidente della Banca Centrale Europea, deve passare attraverso la rapida concessione di credito a costo zero alle imprese da parte del settore bancario; una volta finita l’emergenza, sarà lo Stato a farsi carico di questa operazione, cancellando il debito contratto dal bilancio delle aziende.

Non sembra sia un caso che l’intervento di Draghi sia arrivato insieme a una svolta storica da parte della Bce di Christine Lagarde: all’interno del nuovo programma straordinario di 750 miliardi di euro (Pepp – Pandemic emergency purchase programme), la Bce potrà acquistare senza limiti titoli di Stato, compresi (finalmente) quelli della Grecia, e bond emessi da enti internazionali e sovranazionali. Cade, dunque, uno dei pilastri su cui si fondava il Quantitative Easing (Qe), ossia il limite del 33% per l’acquisto di titoli di Stato e del 50% per i titoli sovrannazionali. Non solo: questi acquisti straordinari, che dureranno almeno fino alla fine dell’anno, potranno spaziare su titoli e attività con durata da 70 giorni a 30 anni, così da tenere sotto controllo l’intera curva dei rendimenti.

La rimozione di questi vincoli ha più che altro un significato simbolico, data la probabile ingente futura emissione di titoli di debito a cui molti paesi dell’Eurozona dovranno ricorrere per far fronte all’emergenza (in altre parole, se in passato questi limiti sono stati sfiorati per alcuni paesi con il conseguente rischio di depotenziamento del Qe, il prevedibile aumento delle emissioni avrebbe potuto rendere nell’immediato meno pressante la loro rimozione): Christine Lagarde, che finalmente sembra aver raccolto il pesante testimone lasciato da Draghi, non vede ora limiti al suo impegno per la tenuta dell’euro. In questo quadro, quello che sembra un cavillo contabile, in realtà, rappresenta un segnale politico significativo: non dover rispettare un limite prestabilito significa che, teoricamente, nel caso di un’emissione di eurobond (Coronabond o Covidbond, come vengono ora definiti da più parti), la Bce potrà sottoscriverne l’intero importo.

Il dibattito sulla possibilità di emettere titoli garantiti da tutta l’Eurozona e finalizzati a sostenere l’emergenza economica che sta interessando tutti è partito da un intervento del Presidente del Consiglio italiano, Giuseppe Conte, sempre sulle colonne del Financial Times in cui esortava i paesi membri a utilizzare i restanti 410 miliardi (la dotazione iniziale era di 500 miliardi) a disposizione del cosiddetto Fondo Salva-Stati (Esm-European stability mechanism), evitando però di sottoscrivere le rigide misure di condizionalità richieste dall’attuale Trattato[3]. Intorno a tale intervento si è presto creato uno schieramento compatto di altri paesi (Francia, Spagna, Belgio, Lussemburgo, Irlanda, Grecia, Portogallo e Slovenia) che chiedono a gran voce l’emissione da parte di un’istituzione europea (la Banca europea per gli investimenti rappresenta un’altra possibilità) di uno strumento di debito comune per far fronte al drammatico impatto del coronavirus sull’economia.

All’interno di questo ragionamento, avendo la crisi origini sanitarie e non finanziarie e/o economiche, nessun paese dovrebbe sottostare a particolari condizioni economiche. D’altro canto, come hanno di recente sottolineato – finalmente – economisti storicamente ortodossi come Alberto Alesina e Francesco Giavazzi in relazione all’opportunità di un intervento diretto da parte del Fondo Salva-Stati, la Bce può sì spegnere gli incendi ma non può da sola dare una risposta completa ed equa a un enorme shock che colpisce tutta l’Eurozona (e non solo).

Sembra essersi, dunque, fatto strada anche nei corridoi mainstream il riconoscimento dell’opportunità di una manovra fiscale coraggiosa a livello europeo, lontana dall’annuale valzer in cui paesi come l’Italia sono costretti a contrattare limitati (per non dire insufficienti) spazi di bilancio. D’altro canto, come già metteva in luce Mundell nel 1961, un’area valutaria per poter essere ottimale deve rispettare alcune condizioni: non soltanto vi è la necessità di redistribuire il reddito tra i paesi membri nel caso in cui questi vadano incontro a fasi del ciclo economico diverse ma, nel caso di uno shock esogeno comune, si dovrebbe anche implementare una risposta fiscale coordinata e comune con un’equa ripartizione dei costi[4].

In ogni caso, l’eventuale emissione di Coronabond non è priva di rischi: per quei paesi che già scontano significative pressioni al rialzo dei tassi di interesse nelle fasi più tumultuose (si pensi all’Italia e alla sua enorme mole di debito pubblico), questi nuovi strumenti finanziari sarebbero a rimborso privilegiato rispetto ai titoli di stato nazionali, il che renderebbe questi ultimi inevitabilmente più rischiosi e, di conseguenza, costosi per il paese emittente. L’idea di una loro potenzialità irredimibilità, ossia emissione senza obbligo di rimborso ma soltanto subordinata al pagamento di un interesse annuo, è stata da più parti avanzata; e il riferimento al ruolo della Bce che potrebbe assorbire interamente le relative emissioni appare scontato.

In quest’ottica, la successiva immissione di liquidità non è vista foriera di spinte inflazionistiche data la grave recessione alle porte. D’altro canto, va detto che la maggior parte delle manovre di bilancio pensate e varate ultimamente, così come gli eventuali Coronabond, non è inflazionistica per il semplice motivo che gli Stati non creano domanda aggiuntiva ma impiegano tali risorse per tamponare l’emergenza.

Sembra ormai chiara l’esigenza di una svolta politica ed economica a livello europeo. L’attivazione della clausola di sospensione del Patto di Stabilità e Crescita introdotta come parte del Six-Pack nel 2011 rappresenta una misura necessaria, insieme alla sospensione della rigida disciplina sugli aiuti di Stato, ma purtroppo insufficiente. La clausola prevede, infatti, che, in periodi di severa recessione per l’Unione Europea e la zona euro, gli Stati possano temporaneamente allontanarsi dall’aggiustamento del saldo di bilancio verso l’obiettivo di medio termine, posto, tuttavia, che ciò non metta a rischio la sostenibilità del bilancio nel medio termine.

Si introduce, dunque, la possibilità di sforamenti di bilancio rispetto a quanto concordato, senza però prevedere coraggiosi piani di sostegno al progressivo collasso del sistema produttivo a cui stiamo assistendo. I Paesi del Nord Europa, che hanno in passato insistito per avere diritto di veto all’interno del Fondo Salva-Stati, ritengono gli spazi di azione consentiti dall’alleggerimento dei vincoli di bilancio sufficienti a contrastare la crisi in atto. Ai loro occhi, in primis a quelli dell’Olanda, capofila della resistenza a un’eventuale emissione di debito comune, dell’Austria e della Finlandia (la posizione della Germania appare lievemente più flessibile), i Coronabond rappresentano un primo passo attraverso il quale i Paesi del Sud vogliono mutualizzare parte del loro debito invece di ridurre la spesa pubblica e aumentare il prelievo.

La sensazione è che i Paesi del Nord non cederanno di un millimetro rispetto alle loro forti resistenze: sottostare alla condizionalità degli eventuali interventi di sostegno appare oggi la condizione necessaria per l’accesso ai fondi del Fondo Salva-Stati o, in ogni caso, per l’implementazione di politiche di bilancio comuni in modo da salvaguardare la sostenibilità dei debiti pubblici nazionali. In altre parole, si invoca la firma di un Memorandum of understanding che rievoca lo scenario tragico della Grecia durante la Crisi dei Debiti Sovrani. Se così fosse, ben farebbe l’Italia ad andare avanti per la sua strada, varando le manovre che ritiene opportune per sostenere il proprio sistema economico. La speranza è che l’Europa non ceda ai propri fantasmi e faccia un passo in avanti nella costruzione di un’Europa federale piuttosto che un passo indietro che rischia di mettere in discussione la sua stessa esistenza.

Note

[1] Giovanni Carnazza ed Emilio Carnevali, “Dobbiamo prepararci a un’economia di guerra?”, Sbilanciamoci.info, 20 marzo 2020.

[2] Mario Draghi, Financial Times, 25 marzo 2020.

[3] Giuseppe Conte, Financial Times, 19 marzo 2020.

[4] Robert A. Mundell, “A Theory of Optimal Currency Area”, The American Economic Review, 1961.

* Giovanni Carnazza, Dipartimento di Economia, Università degli Studi Roma Tre